Di Maio e Cinquestelle: perdendo (forse) si impara

Politica

Massimo Leoni

Le sconfitte possono offrire occasioni di crescita. Potrebbe essere il caso del Movimento dopo il tonfo in Abruzzo. Ecco i segnali

Forse qualcuno di voi ricorda gli ultimi #giochidipalazzo. Si parlava della capacità di vincere di Salvini. E ci si interrogava sulla capacità di perdere dei Cinquestelle. E soprattutto del loro capo politico, rimasto in silenzio per un paio di giorni dopo la sconfitta in Abruzzo.

Mi sbilancio: Di Maio ha saputo perdere. È un segno di maturità, non scontato per un leader politico di 32 anni, che si ritrova pure a fare il vicepresidente del Consiglio (ma voi ve lo ricordate come eravate e cosa facevate a 32 anni? Io sì). Ed altri segni di maturità arrivano – lenti, faticosi ma assolutamente necessari, per loro e per il paese – dai gruppi parlamentari. Comincio da Di Maio, però. Dicendo una cosa che forse farà arrabbiare molti. Se Matteo Renzi avesse mostrato la stessa maturità e responsabilità verso il PD in occasione delle sue sconfitte, forse la storia politica degli ultimi mesi poteva essere diversa. Certo, le sconfitte dell’allora segretario democratico – a cominciare da quella del referendum costituzionale, per finire alle politiche dello scorso marzo – erano di dimensioni ben più imponenti, e quindi più difficili da gestire nella loro parte emotiva. Responsabilità e maturità sono più difficili da trovare quando sei travolto. Ma Renzi era il ragazzo prodigio della politica italiana. Poteva continuare ad esserlo e mi pare che non lo sia più. È evidente dal vuoto, di leader e di voti, che ha lasciato in eredità al Nazareno. Chiudo la parentesi e torno a Di Maio.

Ha aspettato 48 ore, ha tollerato che si parlasse di questa attesa come di una debolezza, l’afasia drammatica dello sconfitto. Invece no. Il capo dei Cinquestelle – primo partito italiano, al governo con lui vicepresidente del Consiglio – oltre a farsi vedere su un balcone in un autunno romano ancora quasi estivo ad esultare per il maggior indebitamento o cantare vittoria sulla povertà una volta per tutte, sparisce da facebook, pensa 48 ore e scrive. Analizza la sconfitta – innanzitutto chiamandola con il suo nome – e propone cambiamenti per evitarla, la prossima volta. Alcuni di questi rivoluzionari, per un Movimento che vorrebbe essere rivoluzionario nei suoi atteggiamenti verso l’esterno e che spesso è reazionario e bigotto al suo interno. Esempi? Il web non basta. Non lo scrive, Di Maio, ma si capisce che lo pensa. Perché scrive che bisogna incontrare – incontrare – le categorie, il mondo del sociale, gli amministratori. Uscire dalla zona di comfort (il web?) e incontrare imprenditori e volontariato. Aprirsi a nuovi mondi e portare dentro le competenze, così come – e qui loda sé stesso – “abbiamo fatto per le politiche”. La continuità positiva, poi: “continueremo a restituire le ambulanze”. Grillo poche ore prima – seppure in uno spettacolo comico, ed è ora di tornare a notare la differenza – aveva detto che voleva che gli abruzzesi restituissero i soldi che avevano avuto dall’autotassazione dei Cinquestelle.

E c’è una frase che scrive il capopoliticoministrovicepresidentedelconsiglio, secondo me trascurata da molti: “C’è poi chi pensa che per vincere in Abruzzo dovevamo far cadere il governo. Questo finchè ci sarò io non avverrà”. Significa tante cose: stabilire una gerarchia tra gli obiettivi, innanzitutto. Ed enunciarla chiaramente. Ciò che, esattamente, è uno dei compiti di un capo politico. Significa – e qui entriamo però nelle interpretazioni ma questo è pur sempre un blog e me lo consentirete  –  che una linea barricadera e intransigente, alla Dibba, ammesso che serva per conquistare l’Abruzzo, non è un prezzo che il vicepresidente del Consiglio è disposto a pagare. Significa che la scelta di stare al governo è una scelta di compromesso e che questo era chiaro fin dall’inizio, anche se Dibba, in quell’inizio, non c’era. Significa che Di Maio non vuole restare con il cerino di una crisi di governo in mano, se non per questioni di vita o di morte.

Una di queste questioni potrebbe essere quella delle autonomie. Anche qui, segni di maturità politica. Questa volta da parte dei gruppi parlamentari. Favorevoli a quel processo – scrivono – solo se sarà solidale e cooperativo. Se non sbilancerà l’erogazione di servizi essenziali. Se non creerà cittadini di serie A e di serie B. Soprattutto, I gruppi Cinquestelle chiedono una parlamentarizzazione del dibattito su una questione che – davvero – può cambiare gli assetti istituzionali e la gestione delle risorse pubbliche in maniera profonda. Il che pare una richiesta assai sensata, se si pensa che in premessa delle tre intese tra il governo e la Lombardia, il Veneto e l’Emilia Romagna, si legge l’opportunità di ridimensionare lo Stato centrale. Direi che su un argomento del genere – di intrinseca natura costituzionale, la parlamentarizzazione è un obbligo.

Finisco. So benissimo che su tutto quello che hanno scritto Di Maio e i gruppi parlamentari si possono ascoltare, scrivere e leggere infiniti retroscena. Ma ho sempre pensato che il proscenio in politica conta, eccome. Non foss’altro perché è ciò che i politici scelgono di far vedere a tutti. Per questo merita un’attenzione almeno pari a quella che si riserva ai retroscena. E stavolta il proscenio è di buona qualità. Migliore della media, anche rispetto agli spettacoli già proposti dai medesimi autori. Se non è un episodio, sarà un bene per il paese.

Consigli per l’ascolto: “You Learn”, Alanis Morissette  

Politica: I più letti