Non solo Twitter: con Renzi è nata la repubblica del Selfie
PoliticaIn un saggio Rizzoli, Marco Damilano racconta la parabola politica (e culturale) degli ultimi settant'anni di storia italiana, culminata con l'irruzione a Palazzo Chigi del premier e col culto dell'auto-rappresentazione. L'ESTRATTO
In Messico ci hanno già pensato. Sul sito istituzionale della presidenza è apparsa una sezione intitolata «Mi foto con el Presidente», in cui compare una lunga serie, oltre cento scatti, di selfie con Enrique Peña Nieto, il cinquantenne esponente del Pri arrivato al vertice del Paese nel 2012. Ecco la faccia di Peña Nieto sorridente tra attrici, infermiere, atleti, donne, tante donne… Un tripudio di volti per risollevare il capo dello Stato a corto di immagine, affidato a un team di fotografi professionisti.
Matteo Renzi per gli scatti ufficiali si è rivolto a due fedelissimi. Il primo si chiama Tiberio Barchielli. Normalmente svolge la sua professione di direttore della testata «Gossipblitz» con cui ogni giorno mette on line il lato A e soprattutto il lato B delle celebrità: topless, bikini, mutande, reggiseni.
Liti al ristorante, paparazzi sotto casa, calendari scollacciati. Un’attività non esattamente istituzionale. Nel resto del tempo si appoggia a Palazzo Chigi e immortala l’attività ufficiale del premier: Renzi in Albania, Renzi in Vaticano con il papa, Renzi con la Merkel, Renzi con Obama… Nel primo anno di governo non ha mancato un appuntamento, il suo trattamento economico risulta da dodici mesi «in corso di attribuzione », unico tra i diretti collaboratori del premier a non aver ancora pubblicato la retribuzione annuale lorda. Sembrano due persone diverse, il fotografo delle attrici e quello della Corte renziana, invece Barchielli è uno, quello originario di Rignano sull’Arno, il paesello natale di Renzi, conosce la famiglia del premier da sempre.
Il secondo fotografo addetto all’immagine del Principe è il suo portavoce, Filippo Sensi. Lui agisce a colpi di iPad, pubblica su Instagram in tempo reale con l’account Nomfup e sotto l’hashtag #cosedilavoro. Foto mosse o in bianco e nero, immagini sporche, in apparenza rubate. Renzi alla scrivania, Renzi nel backstage di un’intervista televisiva, la scrivania di Renzi con le copertine dei libri appena comprati ostentate a favore del fotografo, Renzi a cena con la cancelliera tedesca, Renzi che si aggiusta il nodo della cravatta, Renzi in piedi alla scrivania, Renzi in maniche di camicia, Renzi con il papa… Così, con l’aria trasandata e fintamente casuale di chi si è trovato nel dietro le quinte a immortalare un frammento di storia – anche quando l’evento obiettivamente non è così memorabile, come una segreteria del Pd con Debora Serracchiani e Matteo Orfini – Sensi costruisce per il suo principale una postura presidenziale, con l’intento di trasformare Palazzo Chigi nella Casa Bianca, l’ufficio di Renzi nello Studio Ovale, i suoi collaboratori in Arthur Schlesinger o in David Axelrod.
Con l’obiettivo di tramandare una leadership informale che si lascia cogliere in un istante di pausa dal lavoro, o fuori dall’iconografia ufficiale. Sempre in bilico sul sottilissimo filo del ridicolo, superato il quale non ci sarebbe più ritorno. Per ora regge, nell’assenza di critica, nell’adulazione generale con cui viene accolto qualsiasi aspetto del renzismo. La pizza mangiata in compagnia e il cono gelato offerto ai giornalisti nel cortile di Palazzo Chigi vengono subito mediatizzati, aprono discussioni, funzionano come distrazione di massa.
Le #cosedilavoro di Sensi si fermano lì, tra l’ammirazione e l’adulazione. Ma colgono l’aspetto più profondo del renzismo. Il culto del Sé. Il Selfie.
Extimidad, l’ha definita il quotidiano spagnolo «El País» il 31 agosto 2014 per indicare la tendenza di scrittori e romanzieri a raccontare la loro vita, la loro biografia, di trasformare il loro Io in una fiction, l’esibizione dell’interiorità esteriore, l’Estimità, il contrario dell’intimità, di cui ha parlato Zygmunt Bauman in uno scritto sui social network, di cui il selfie è la massima espressione, «manipolare la loro esperienza di vita non per raccontare la verità ma per scrivere un buon romanzo». Vale per la letteratura, ma anche per la politica.
La Prima Repubblica era la Repubblica dei partiti. Con l’ossessione della rappresentanza. Nessuno doveva sentirsi escluso dal gioco: nessuna ideologia, nessuna categoria. Tutti dovevano sentirsi coinvolti nella partita. Il cattolico bene comune e il più laico interesse generale erano garantiti e tutelati da una gigantesca somma di interessi particolari, ciascuno a rivendicare i suoi milioni (o migliaia) di iscritti, il suo esercito di associati, il suo radicamento nella società. Le partecipazioni statali questo, lo Stato che arrivava su un territorio e si faceva impresa, secondo le esigenze del gruppo dirigente locale: il sindaco, il presidente di Regione, il prefetto, il vescovo, il capo degli industriali, il sindacalista… Più di tutti erano rappresentativi i partiti. Con i loro capi e capetti, le loro correnti, specchio di una società fragile, divisa, «molecolare», teorizzava il direttore del Censis Giuseppe De Rita, il vero ideologo di quella stagione. Il mezzo espressivo di quell’epoca era la tv del servizio pubblico, la Rai in bianco e nero: pedagogica e inclusiva. La Repubblica dei padri. Politica senza competizione, economia senza concorrenza.
La Seconda Repubblica è stata la Repubblica della rappresentazione. Il suo simbolo è stata la tv commerciale che già negli anni Ottanta, prima che il berlusconismo prendesse forma politica, proponeva modelli di vita, rappresentazioni cui uniformarsi. L’audience, il risvolto televisivo della maggioranza berlusconiana. «La maggioranza rappresenta la parte quantitativamente superiore alle altre parti. Come tale trae la sua forza dalla quantità, non dall’identità dei singoli votanti» ha scritto Freccero. L’arena di gioco è stato il talk show. Lo studio televisivo in cui affrontarsi con molta più virulenza delle aule parlamentari. Il di qua o di là. È lì che destra e sinistra si sono date un’identità politica che non avevano. Il teatrino della politica, o ancor meglio il Teatrone, come l’ha definito Filippo Ceccarelli. Di una guerra civile simulata – tra berlusconiani e anti-berlusconiani, tra azzurri e rossi, tra Mediaset e Rai –, perché quella vera era finita da un pezzo.
A ciascuno il suo ruolo. Il Cavaliere nella parte del salvatore della Patria per i suoi sostenitori e del Caimano devastatore delle regole del vivere comune per chi resisteva alla deformazione dello Stato secondo il modello di Arcore. Il centro-sinistra metteva in scena la composizione impossibile tra gli eredi della Dc e quelli del Pci, simboleggiata dalla doppia caduta dei governi di Romano Prodi, non allineato con nessuno dei due apparati e destinato alla sconfitta. Dramma e commedia si intrecciano, nella Seconda Repubblica dei primi attori e dei comprimari, del bipolarismo recitato negli studi televisivi. Con gli attori, i registi, gli artisti che in un capovolgimento dei ruoli tendono a invadere il palcoscenico della politica.
Succede quando Nanni Moretti sale su un palchetto dell’Ulivo e dichiara chiusa per sempre la stagione dei Fassino e dei Rutelli: «Con questi dirigenti non vinceremo mai!». È il 2 febbraio 2002, i capi del centro-sinistra impiegheranno più di dieci anni ad accorgersi di quanto sia vero. E accade alla fine del ventennio, quando il comico Beppe Grillo si fa leader e manda a casa le maschere della Seconda Repubblica, nel frattempo trasformate in gran parte in buffoni.
La Terza Repubblica, la Repubblica di Renzi, sarà la stagione dell’auto-rappresentazione. Saltare i canali di comunicazione del passato. La Prima Repubblica aveva la Rai, la Seconda la tv commerciale, la Terza Twitter. «I talk sono gli stessi di dieci anni fa» attacca Renzi che pure in quei talk è nato, si è affermato e che continua a frequentare con assiduità, soprattutto quelli più accomodanti. Un leader tipicamente estimista, che fa sentire emotivamente coinvolte le migliaia di persone alla Leopolda o i milioni di fronte alla tv e ha difficoltà a restare concentrato sull’interlocutore nel tu per tu. Smartphone in mano, sempre connesso con un altrove. «Se l’Europa facesse un selfie oggi, emergerebbe il volto della stanchezza e della rassegnazione. In sintesi, della noia» ha detto il premier al Parlamento europeo aprendo il semestre italiano di presidenza. In chiusura, sei mesi dopo, ha fatto aspettare il presidente del Parlamento Martin Schulz per farsi i selfie. Evidentemente Renzi non corre il rischio della noia.
Di lui, di noi non resterà che un selfie. «Un selfie ci seppellirà » si è visto scritto all’inizio del 2015 su un muro del romano quartiere di San Lorenzo. Un selfie moltiplicato per milioni di italiani. Auto-scatto, auto-promozione sui social network, auto-identità, auto-referenzialità. Auto-rappresentazione, appunto. «I social network non riguardano tanto l’affermazione di qualcosa come fosse una verità, quanto piuttosto la creazione della verità tramite una serie infinita di clic. Per uscirne sarebbe bene ammettere “non sono quel che sono”» ha scritto l’olandese Geert Lovink, studioso dei nuovi media. Ma è difficile che Renzi dica, un giorno: non sono quel che sono. Lui è quel che è. Sempre.
«Questo è il potere» esclama l’attrice Emma Stone mostrando il numero di visualizzazioni sul suo smartphone in Birdman, il film del regista messicano Alejandro González Iñárritu. A Renzi è piaciuto moltissimo, l’ha citato anche in una direzione del Pd: «Guardatevi la scena del faccia a faccia tra la critica teatrale e l’attore, dura solo un minuto e trenta secondi. Tutto è comunicazione». Dalla Repubblica dei partiti alla Repubblica del Selfie. Con il volto del premier ossessivamente in primo piano. Con istituzioni rifatte a misura sua.
Un sistema politico con un unico viso illuminato e attorno una serie di faccette comprimarie. «Bipersonalismo imperfetto» si era azzardato a definire il nuovo sistema politico il costituzionalista Fulco Lanchester, nei mesi precedenti alle elezioni europee 2014, quando il bipolarismo destra-sinistra sembrava destinato a essere sostituito dallo scontro tra due persone, Renzi e Grillo, ancora una volta imperfetto perché solo uno dei due, in realtà, aveva la possibilità di vincere le elezioni. Il risultato del voto, il 40,8 per cento per il Pd, venti punti più del Movimento 5 Stelle, ha fatto rapidamente invecchiare anche quella definizione. Non c’è più rappresentanza, non c’è più rappresentazione, resta l’auto-rappresentazione. Dal bipolarismo si passa al mono-personalismo.
Proprietà letteraria riservata © 2015 RCS Libri S.p.A., Milano
Tratto da Marco Damilano, La Repubblica del Selfie. Dalla meglio gioventù a Matteo Renzi, Rizzoli, pp. 286, euro 18,50
Marco Damilano (Roma, 1968) è inviato di politica interna dell’“Espresso”. Tra i suoi ultimi libri: Eutanasia di un potere (2012) e Chi ha sbagliato più forte (2013).
Matteo Renzi per gli scatti ufficiali si è rivolto a due fedelissimi. Il primo si chiama Tiberio Barchielli. Normalmente svolge la sua professione di direttore della testata «Gossipblitz» con cui ogni giorno mette on line il lato A e soprattutto il lato B delle celebrità: topless, bikini, mutande, reggiseni.
Liti al ristorante, paparazzi sotto casa, calendari scollacciati. Un’attività non esattamente istituzionale. Nel resto del tempo si appoggia a Palazzo Chigi e immortala l’attività ufficiale del premier: Renzi in Albania, Renzi in Vaticano con il papa, Renzi con la Merkel, Renzi con Obama… Nel primo anno di governo non ha mancato un appuntamento, il suo trattamento economico risulta da dodici mesi «in corso di attribuzione », unico tra i diretti collaboratori del premier a non aver ancora pubblicato la retribuzione annuale lorda. Sembrano due persone diverse, il fotografo delle attrici e quello della Corte renziana, invece Barchielli è uno, quello originario di Rignano sull’Arno, il paesello natale di Renzi, conosce la famiglia del premier da sempre.
Il secondo fotografo addetto all’immagine del Principe è il suo portavoce, Filippo Sensi. Lui agisce a colpi di iPad, pubblica su Instagram in tempo reale con l’account Nomfup e sotto l’hashtag #cosedilavoro. Foto mosse o in bianco e nero, immagini sporche, in apparenza rubate. Renzi alla scrivania, Renzi nel backstage di un’intervista televisiva, la scrivania di Renzi con le copertine dei libri appena comprati ostentate a favore del fotografo, Renzi a cena con la cancelliera tedesca, Renzi che si aggiusta il nodo della cravatta, Renzi in piedi alla scrivania, Renzi in maniche di camicia, Renzi con il papa… Così, con l’aria trasandata e fintamente casuale di chi si è trovato nel dietro le quinte a immortalare un frammento di storia – anche quando l’evento obiettivamente non è così memorabile, come una segreteria del Pd con Debora Serracchiani e Matteo Orfini – Sensi costruisce per il suo principale una postura presidenziale, con l’intento di trasformare Palazzo Chigi nella Casa Bianca, l’ufficio di Renzi nello Studio Ovale, i suoi collaboratori in Arthur Schlesinger o in David Axelrod.
Con l’obiettivo di tramandare una leadership informale che si lascia cogliere in un istante di pausa dal lavoro, o fuori dall’iconografia ufficiale. Sempre in bilico sul sottilissimo filo del ridicolo, superato il quale non ci sarebbe più ritorno. Per ora regge, nell’assenza di critica, nell’adulazione generale con cui viene accolto qualsiasi aspetto del renzismo. La pizza mangiata in compagnia e il cono gelato offerto ai giornalisti nel cortile di Palazzo Chigi vengono subito mediatizzati, aprono discussioni, funzionano come distrazione di massa.
Le #cosedilavoro di Sensi si fermano lì, tra l’ammirazione e l’adulazione. Ma colgono l’aspetto più profondo del renzismo. Il culto del Sé. Il Selfie.
Extimidad, l’ha definita il quotidiano spagnolo «El País» il 31 agosto 2014 per indicare la tendenza di scrittori e romanzieri a raccontare la loro vita, la loro biografia, di trasformare il loro Io in una fiction, l’esibizione dell’interiorità esteriore, l’Estimità, il contrario dell’intimità, di cui ha parlato Zygmunt Bauman in uno scritto sui social network, di cui il selfie è la massima espressione, «manipolare la loro esperienza di vita non per raccontare la verità ma per scrivere un buon romanzo». Vale per la letteratura, ma anche per la politica.
La Prima Repubblica era la Repubblica dei partiti. Con l’ossessione della rappresentanza. Nessuno doveva sentirsi escluso dal gioco: nessuna ideologia, nessuna categoria. Tutti dovevano sentirsi coinvolti nella partita. Il cattolico bene comune e il più laico interesse generale erano garantiti e tutelati da una gigantesca somma di interessi particolari, ciascuno a rivendicare i suoi milioni (o migliaia) di iscritti, il suo esercito di associati, il suo radicamento nella società. Le partecipazioni statali questo, lo Stato che arrivava su un territorio e si faceva impresa, secondo le esigenze del gruppo dirigente locale: il sindaco, il presidente di Regione, il prefetto, il vescovo, il capo degli industriali, il sindacalista… Più di tutti erano rappresentativi i partiti. Con i loro capi e capetti, le loro correnti, specchio di una società fragile, divisa, «molecolare», teorizzava il direttore del Censis Giuseppe De Rita, il vero ideologo di quella stagione. Il mezzo espressivo di quell’epoca era la tv del servizio pubblico, la Rai in bianco e nero: pedagogica e inclusiva. La Repubblica dei padri. Politica senza competizione, economia senza concorrenza.
La Seconda Repubblica è stata la Repubblica della rappresentazione. Il suo simbolo è stata la tv commerciale che già negli anni Ottanta, prima che il berlusconismo prendesse forma politica, proponeva modelli di vita, rappresentazioni cui uniformarsi. L’audience, il risvolto televisivo della maggioranza berlusconiana. «La maggioranza rappresenta la parte quantitativamente superiore alle altre parti. Come tale trae la sua forza dalla quantità, non dall’identità dei singoli votanti» ha scritto Freccero. L’arena di gioco è stato il talk show. Lo studio televisivo in cui affrontarsi con molta più virulenza delle aule parlamentari. Il di qua o di là. È lì che destra e sinistra si sono date un’identità politica che non avevano. Il teatrino della politica, o ancor meglio il Teatrone, come l’ha definito Filippo Ceccarelli. Di una guerra civile simulata – tra berlusconiani e anti-berlusconiani, tra azzurri e rossi, tra Mediaset e Rai –, perché quella vera era finita da un pezzo.
A ciascuno il suo ruolo. Il Cavaliere nella parte del salvatore della Patria per i suoi sostenitori e del Caimano devastatore delle regole del vivere comune per chi resisteva alla deformazione dello Stato secondo il modello di Arcore. Il centro-sinistra metteva in scena la composizione impossibile tra gli eredi della Dc e quelli del Pci, simboleggiata dalla doppia caduta dei governi di Romano Prodi, non allineato con nessuno dei due apparati e destinato alla sconfitta. Dramma e commedia si intrecciano, nella Seconda Repubblica dei primi attori e dei comprimari, del bipolarismo recitato negli studi televisivi. Con gli attori, i registi, gli artisti che in un capovolgimento dei ruoli tendono a invadere il palcoscenico della politica.
Succede quando Nanni Moretti sale su un palchetto dell’Ulivo e dichiara chiusa per sempre la stagione dei Fassino e dei Rutelli: «Con questi dirigenti non vinceremo mai!». È il 2 febbraio 2002, i capi del centro-sinistra impiegheranno più di dieci anni ad accorgersi di quanto sia vero. E accade alla fine del ventennio, quando il comico Beppe Grillo si fa leader e manda a casa le maschere della Seconda Repubblica, nel frattempo trasformate in gran parte in buffoni.
La Terza Repubblica, la Repubblica di Renzi, sarà la stagione dell’auto-rappresentazione. Saltare i canali di comunicazione del passato. La Prima Repubblica aveva la Rai, la Seconda la tv commerciale, la Terza Twitter. «I talk sono gli stessi di dieci anni fa» attacca Renzi che pure in quei talk è nato, si è affermato e che continua a frequentare con assiduità, soprattutto quelli più accomodanti. Un leader tipicamente estimista, che fa sentire emotivamente coinvolte le migliaia di persone alla Leopolda o i milioni di fronte alla tv e ha difficoltà a restare concentrato sull’interlocutore nel tu per tu. Smartphone in mano, sempre connesso con un altrove. «Se l’Europa facesse un selfie oggi, emergerebbe il volto della stanchezza e della rassegnazione. In sintesi, della noia» ha detto il premier al Parlamento europeo aprendo il semestre italiano di presidenza. In chiusura, sei mesi dopo, ha fatto aspettare il presidente del Parlamento Martin Schulz per farsi i selfie. Evidentemente Renzi non corre il rischio della noia.
Di lui, di noi non resterà che un selfie. «Un selfie ci seppellirà » si è visto scritto all’inizio del 2015 su un muro del romano quartiere di San Lorenzo. Un selfie moltiplicato per milioni di italiani. Auto-scatto, auto-promozione sui social network, auto-identità, auto-referenzialità. Auto-rappresentazione, appunto. «I social network non riguardano tanto l’affermazione di qualcosa come fosse una verità, quanto piuttosto la creazione della verità tramite una serie infinita di clic. Per uscirne sarebbe bene ammettere “non sono quel che sono”» ha scritto l’olandese Geert Lovink, studioso dei nuovi media. Ma è difficile che Renzi dica, un giorno: non sono quel che sono. Lui è quel che è. Sempre.
«Questo è il potere» esclama l’attrice Emma Stone mostrando il numero di visualizzazioni sul suo smartphone in Birdman, il film del regista messicano Alejandro González Iñárritu. A Renzi è piaciuto moltissimo, l’ha citato anche in una direzione del Pd: «Guardatevi la scena del faccia a faccia tra la critica teatrale e l’attore, dura solo un minuto e trenta secondi. Tutto è comunicazione». Dalla Repubblica dei partiti alla Repubblica del Selfie. Con il volto del premier ossessivamente in primo piano. Con istituzioni rifatte a misura sua.
Un sistema politico con un unico viso illuminato e attorno una serie di faccette comprimarie. «Bipersonalismo imperfetto» si era azzardato a definire il nuovo sistema politico il costituzionalista Fulco Lanchester, nei mesi precedenti alle elezioni europee 2014, quando il bipolarismo destra-sinistra sembrava destinato a essere sostituito dallo scontro tra due persone, Renzi e Grillo, ancora una volta imperfetto perché solo uno dei due, in realtà, aveva la possibilità di vincere le elezioni. Il risultato del voto, il 40,8 per cento per il Pd, venti punti più del Movimento 5 Stelle, ha fatto rapidamente invecchiare anche quella definizione. Non c’è più rappresentanza, non c’è più rappresentazione, resta l’auto-rappresentazione. Dal bipolarismo si passa al mono-personalismo.
Proprietà letteraria riservata © 2015 RCS Libri S.p.A., Milano
Tratto da Marco Damilano, La Repubblica del Selfie. Dalla meglio gioventù a Matteo Renzi, Rizzoli, pp. 286, euro 18,50
Marco Damilano (Roma, 1968) è inviato di politica interna dell’“Espresso”. Tra i suoi ultimi libri: Eutanasia di un potere (2012) e Chi ha sbagliato più forte (2013).