Non solo Pci: quando la sinistra scendeva in piazza

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Un libro di Fabio Calè e un dvd con filmati di Scola, Riondino e Mercuri raccontano i luoghi, le piazze e le città delle Feste dell'Unità, un evento lungo mezzo secolo a metà tra spontaneità ed evento di partito. LEGGI UN ESTRATTO E GUARDA IL VIDEO

di Fabio Calè (testo) e Federico Mercuri (video)

Nei primi anni di vita della Repubblica italiana la Festa de l’Unità vive uno sviluppo tumultuoso.
Le prime esperienze, sorte sull’onda dell’entusiasmo, danno vita a un modello organizzato ma non rigido, integrato nell’alveo delle mobilitazioni di massa del Partito comunista. Il successo delle feste, l’impressionante velocità e profondità del loro insediamento nel vissuto e nell’immaginario popolare sono certamente da ascrivere alla forza del Pci come partito di massa; ma tale sequenza causale può essere invertita, senza che tale acrobazia vada a detrimento della verità.
È una crescita esponenziale e parallela: il Pci, in meno di cinque anni, passa dalle dimensioni ridotte della clandestinità a un milione e mezzo di iscritti. Già nei tardi anni quaranta, nei discorsi e nelle decisioni dei dirigenti comunisti, si osserva una consapevolezza matura della funzione e delle potenzialità della festa. Ciò non toglie che la longevità e l’adattabilità della festa al mutare dei tempi – un processo vorticoso se solo pensiamo alle trasformazioni sociali e culturali della seconda metà del Novecento – dipendano anche da un rapporto dialettico fecondo tra direzione centrale e autonomia territoriale, tra teoria e pratica rigorosa dell’organizzazione e apertura alla creatività e alla fantasia.

La spontaneità delle prime feste non è un dato assoluto. Anche in occasione della scampagnata di Mariano Comense, è il Cln di Milano a scegliere il luogo. La presenza dei massimi dirigenti comunisti, il supporto fornito da tante diverse organizzazioni del Partito, dalle cellule di fabbrica alle delegazioni provenienti da altre regioni, indicano un impegno consistente da parte dei vertici.
Ma considerando il programma, i premi dei concorsi, i giochi e le manifestazioni sportive, quindi l’offerta della festa nel suo insieme, emerge il profilo di una iniziativa tipicamente popolare. Un tratto peculiare di questa come di altre feste degli anni quaranta, piccole e grandi, cittadine o paesane o rionali, è lo scarto tra le previsioni e i risultati conseguiti. Potrebbe essere solo il frutto dell’enfasi retorica, certo non assente dalle cronache dell’epoca, quelle de «l’Unità» in particolare; tuttavia, se così fosse, non si spiegherebbe l’intensità delle reazioni delle controparti politiche, di cui vedremo alcuni esempi significativi, né la centralità che le feste assumono immediatamente nell’autorappresentazione del mondo comunista. Hobsbawm ha individuato un fenomeno simile nella sua indagine sulla tradizione del Primo maggio (in Gente non comune, 2007):

L’aspetto straordinario di questa istituzione è la sua natura non premeditata. In questo senso si tratta non tanto di una «tradizione inventata», ma di una consuetudine cristallizzatasi spontaneamente.

Tra le sue considerazioni, che lasciano scorgere più di una similitudine tra l’avvento del Primo maggio e la nascita della Festa de l’Unità, è importante ricordare quelle sull’efficacia dei simboli, sul significato profondo del carattere festivo dell’evento:

Se il Primo maggio fu figlio di qualcosa, quel qualcosa fu il prevalere dei simboli sulle considerazioni di ordine pratico. Fu l’interruzione simbolica del lavoro a far sì che il Primo maggio non fosse semplicemente una manifestazione o una commemorazione in più. […] Perché astenersi dal lavoro in un giorno lavorativo era sia una dimostrazione di forza da parte degli operai – in effetti, la quintessenza di una siffatta dimostrazione – sia la quintessenza della libertà: non esser costretti a sudarsi fino all’ultimo spicciolo di salario e poter passare per una volta una giornata a proprio piacimento, con parenti e amici. Era quindi un gesto che esprimeva coscienza di classe e coscienza della propria forza, e nel contempo una festa, quasi un assaggio della vita migliore che l’emancipazione del proletariato avrebbe portato con sé.

Se per il Primo maggio è l’astensione dal lavoro ad alimentare la potenza simbolica dell’evento, nel caso delle feste si potrebbe attribuire tale funzione alla rinuncia alle ferie, al lavoro gratis, al volontariato.
Per comprendere le ragioni del successo immediato delle feste occorre immergersi nell’atmosfera dei primi anni del dopoguerra: nonostante gli stenti, le difficoltà enormi, la violenza diffusa e i conflitti politici durissimi che segnano questa fase, prevale il desiderio di vivere la libertà recentemente sottratta al terrore e ai bombardamenti, di riappropriarsi dei luoghi, delle piazze, delle città. Sull’onda di questo sentimento di liberazione, diverse altre feste si celebrano nello stesso 1945, dalla parata sul Canal grande a Venezia alla prima festa ai Giardini Margherita a Bologna, cominciando con le celebrazioni del 14 luglio, a testimonianza, come sottolinea Bernieri, di un forte legame ideale con la Francia, patria della Rivoluzione, della Comune e primo rifugio dei perseguitati dal fascismo.
È proprio la Fête de l’Humanité, la festa del giornale dei comunisti francesi, – avviata nel 1930, negli anni successivi ospitò anche stand de «l’Unità» –, il modello che i dirigenti del Pci hanno in mente; ma non siamo di fronte a un semplice caso di importazione, di emulazione. L’esempio francese vale in particolare per quel che riguarda la festa come iniziativa politica, nella sua qualità di strumento di aggregazione e di autofinanziamento legato all’informazione di partito: l’assunzione e la pratica di un principio di autonomia politica, economica, sociale e culturale.
© 2011 Donzelli editore, Roma

Tratto da Fabio Calè, Popolo in festa, pp. 130, euro 15, con un dvd con filmati di Ettore Scola, David Riondino e Federico Mercuri

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