Si tratta di tre società e 75 beni immobili che si trovano nelle province di Caserta, Benevento, Salerno, L'Aquila e Parma, oltre a ben mobili e rapporti finanziari
Sequestrati beni nelle disponibilità di due fratelli imprenditori operanti nei settori del cemento e della ristorazione del Casertano. A eseguire il decreto, emesso dal Tribunale di S. Maria Capua Vetere - Sezione per l'Applicazione delle Misure di Prevenzione - su proposta del Direttore della DIA e del Questore di Caserta con la collaborazione della Guardia di Finanza, gli agenti della Direzione Investigativa Antimafia, della Divisione Anticrimine della Questura di Caserta e del Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Caserta.
Il sequestro
Il provvedimento ha comportato il sequestro di beni e l'amministrazione giudiziaria di imprese per un valore complessivo stimato in circa 30 milioni di euro interessando quanto risultato nella disponibilità, diretta ed indiretta, di uno dei due imprenditori. Si tratta di tre società e 75 beni immobili che si trovano nelle province di Caserta, Benevento, Salerno, L'Aquila e Parma (18 terreni, 18 abitazioni, 2 opifici industriali, 36 garage/magazzini ed 1 multiproprietà in costiera amalfitana), nonché 99 rapporti finanziari e 10 beni mobili registrati (5 autovetture, tra cui una Ferrari ed una Porsche, 3 imbarcazioni e 2 rimorchi). E' stata poi disposta l'amministrazione giudiziaria per il periodo di un anno delle 6 aziende all'altro imprenditore. Quest'ultima misura di prevenzione è volta al possibile recupero dell'azienda alle regole del mercato.
I legami con il clan dei Casalesi e Belforte
I due imprenditori vengono ritenuti vicini al clan dei Casalesi e Belforte di Marcianise (Ce). Uno dei due è stato condannato nel 2017 dalla Corte di Appello di Napoli a una pena ad anni 5, mesi 5 e giorni 10 di reclusione e 4.600 euro di multa. In particolare è stata riscontrata, anche grazie alle dichiarazioni rese da alcuni collaboratori di giustizia, una strutturata modalità di riscossione del "pizzo" tramite l'azienda facente capo agli stessi. Infatti il meccanismo ideato dagli imprenditori, definiti anche "le spie del pizzo", si realizzava sia mediante sovrafatturazione degli importi dovuti "gonfiando" i costi rispetto alle effettive forniture per consentire la creazione di "fondi neri" destinati al pagamento delle estorsioni, sia attraverso l'organizzazione di incontri tra gli estorti e gli appartenenti al clan. Il sistema era così collaudato che gli imprenditori che avviavano nuove attività talvolta si rivolgevano spontaneamente ai predetti affinché indicassero i referenti dell'organizzazione da contattare per "mettersi a posto".