Gaza, un guerra (anche) contro i giornalisti

L’anno scorso è stato quello in cui sono stati uccisi più giornalisti. Il secondo anno consecutivo in cui si registra questo triste record. Un biennio horribilis per la professione, come sottolineato nel report appena pubblicato dal Watson Institute for International and Public Affairs e intitolato “Cimiteri delle notizie: come i pericoli per i reporter di guerra mettono in pericolo il mondo”. Chiaro fin dal titolo qual è la causa di tante vittime. La guerra è una minaccia crescente per chi cerca di raccontarla dal campo di battaglia. Nel 2023, in tutto il mondo, un giornalista o altro operatore media è rimasto ucciso o è stato assassinato ogni quattro giorni. Nel 2024, è successo una volta ogni tre giorni. E poi c’è Gaza dove l'uccisione di giornalisti ha raggiunto livelli senza precedenti. Guerra ai reporter di guerra Gli “operatori media” includono il personale di supporto senza il quale il giornalismo non esisterebbe, tra cui i traduttori, gli autisti e i cosiddetti fixer, e cioè coloro che rendono possibile spostarsi in un contesto molto pericoloso. Il Watson Institute for International and Public Affairs utilizza i dati del Comitato per la Protezione dei Giornalisti, e quelli che proponiamo qui sono relativi ai giornalisti e operatori media rimasti vittime per motivi ufficialmente noti. Un’altra dozzina di vittime è morta sia nel 2023 sia nel 2024 per cause ancora da accertare. Quel che colpisce maggiormente è che mentre molti decessi, come ci si aspetterebbe, sono dovute al trovarsi nel luogo sbagliato al momento sbagliato - durante un raid o un bombardamento - più di qualcuna, invece, è dichiaratamente un omicidio intenzionale. Giornalisti uccisi perché stavano svolgendo il proprio lavoro. Una preoccupante guerra ai giornalisti di guerra. Il recente aumento delle morti tra i giornalisti è stato alimentato dal bilancio senza precedenti del conflitto a Gaza a partire dall’ottobre 2023. Trentasette giornalisti sono stati uccisi nella Striscia di Gaza durante il secondo mese dall'invasione dell’esercito israeliano, che ne fanno il mese più letale documentato dal Committee to Protect Journalists da quando ha iniziato a raccogliere dati nel 1992. Complessivamente, l’Idf ha ucciso più giornalisti in 10 settimane di qualsiasi altro esercito o entità in un singolo anno. Al 26 marzo 2025, sono almeno 232 i giornalisti e gli operatori uccisi a Gaza dall'inizio della guerra, secondo i recenti aggiornamenti del CPJ e un'indagine di Al Jazeera, emittente del Qatar, Paese che negli anni ha finanziato Hamas. Una media di circa 13 vittime ogni mese, uno ogni due giorni. In un anno e mezzo di conflitto, a Gaza e in Libano sono stati uccisi più reporter che in tutte le principali guerre del XX secolo. E secondo Reporter Without Borders, dall'ottobre 2023 si sono verificati almeno 35 casi in cui ci sono informazioni sufficienti per confermare che i giornalisti uccisi sono stati presi di mira direttamente dall’esercito di Israele a causa del loro lavoro. Le guerre incomprensibili La maggior parte dei reporter feriti o uccisi a Gaza, ma non solo lì, sono giornalisti locali. Si fa sempre più affidamento, infatti, su questi giornalisti spesso sottopagati, con risorse insufficienti e poco equipaggiati per svolgere i tipi di copertura più pericolosi, mentre il numero di corrispondenti esteri occidentali diminuisce, anzi è quasi assente. Questa particolare situazione non solo mette a repentaglio la vita dei reporter locali, lasciandoli soli di fronte a una realtà di straordinaria violenza e pericolosità, ma compromette anche la copertura delle notizie e, di conseguenza, l'ecosistema informativo mondiale. Il numero decrescente di corrispondenti esteri esperti nelle zone di conflitto ha inibito la conoscenza critica e ha contribuito a facilitare la creazione di quelli che il report del Watson Institute definiscono “cimiteri di notizie”. Anche nel conflitto in corso ai confini di Israele, sono pochissimi i giornalisti internazionali ad avere avuto accesso ai luoghi dove avvenivano gli scontri. Un’usanza in voga dalla prima guerra del Golfo, in cui solo i giornalisti ‘embedded’ hanno potuto raccontare quanto stava accadendo. Un’abitudine che sta sottraendo testimoni attendibili e mina la capacità di farsi un’opinione informata in merito.

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