Harris vs Trump: ma nessuno dei due ha un piano per la pace in Medio Oriente

A oltre un anno dagli attacchi di Hamas del 7 ottobre, con la guerra estesa da Gaza alla Cisgiordania al Libano e - chissà - forse all’Iran, negli Stati Uniti i limiti dell’amministrazione Biden sembrano destinati a perpetuarsi anche con il prossimo presidente. Il presidente Joe Biden e il segretario di Stato Anthony Blinken hanno provato a mantenere contemporaneamente attivi il sostegno a Israele, l’impegno per un cessate il fuoco e un ruolo di mediazione in Medio Oriente. In pratica, hanno finito, però, per ottenere scarsi se non nulli risultati mano a mano che il conflitto si allargava e l’ascendente su Benjamin Netanyahu e il suo governo declinava. La maggior parte del mondo arabo, sia le popolazioni che le élite, condivide una percezione profondamente radicata degli Stati Uniti come filo-israeliani. Ciò rende difficile accettare Washington come l’’onesto sensale’ in un accordo di pace credibile. Inoltre, il governo israeliano ha reso chiara la sua ostilità a qualsiasi ingerenza in quella che considera una questione puramente interna e una priorità di sicurezza non negoziabile. I precedenti disaccordi – per esempio su una soluzione ‘a due Stati’ della questione palestinese -- hanno contribuito anch’essi a inasprire le relazioni, indebolendo ulteriormente la posizione di Washington. Sulla scena interna, la necessità di non inimicarsi fasce dell'elettorato democratico ha portato il presidente ad adottare una posizione spesso ambigua. Al contempo, le diffuse proteste pro-Palestina dentro e fuori i campus universitari hanno evidenziato il fatto che molti elettori democratici non fossero d'accordo con l'agenda ufficiale della Casa Bianca. La sfida dei repubblicani e Trump Il Partito Repubblicano ha sfruttato ampiamente questa situazione per mettere Biden sotto pressione. Donald Trump ha rivendicato con forza la sua posizione filoisraeliana ‘senza se e senza ma’; ha accusato i Democratici di simpatie pro-Palestina e pro-Hamas, etichettando Biden come un "palestinese" e il leader della maggioranza al Senato Chuck Schumer come un "orgoglioso membro di Hamas" e ha invitato le organizzazioni politiche ebraiche statunitensi a sostenere la sua campagna e le sue ambizioni presidenziali. L'abbandono della corsa da parte di Biden ha avuto un impatto limitato su questa situazione. Anche se Kamala Harris è apparsa più sensibile alla catastrofe umanitaria in cui versano i civili palestinesi, la sua strategia è stata sinora quella di minimizzare la questione israelo-palestinese nella sua campagna elettorale. Questo, però, non ha disinnescato le proteste né ha costretto Trump a spostarsi su posizioni più moderate. Probabilmente, il punto più rilevante è che né Trump né Harris sembrano avere un vero piano per garantire un cessate il fuoco e un accordo di rilascio degli ostaggi tra Israele e Hamas. Entrambi hanno finora evitato di entrare in quello che sembrano considerare una specie di campo minato politico. Anche nel dibattito televisivo del 10 settembre, i due candidati si sono scambiati attacchi personali anche pesanti ma hanno eluso la questione su come uscire dall'attuale situazione di stallo. La posizione intransigentemente pro-Israele di Trump è nota sin dagli anni del suo primo mandato. Jared Kushner, genero di Trump e suo ex Senior Advisor, ha elogiato l’uccisione di Hassan Nasrallah, definendola "il giorno più importante in Medio Oriente dalla svolta degli Accordi di Abramo". Tuttavia, non è chiaro come questa posizione si possa concretizzare in un contesto regionale drasticamente deteriorato. Sul fronte opposto, dopo l’annuncio della sua candidatura, Harris ha cercato attivamente di prendere le distanze da Biden su questo tema. Anche in questo caso, non è, comunque, chiaro come questa differenza di approccio potrebbe evolversi in una politica effettiva. Congresso e squadre dei presidenti, un tema da non sottovalutare Il nuovo Congresso avrà un ruolo chiave nel conflitto in corso. Nella storia politica degli Stati Uniti, il Legislativo è stato spesso un ostacolo all'implementazione delle politiche presidenziali, anche quando i presidenti provenivano dallo stesso partito della maggioranza del Congresso. Inoltre, la questione del Medio Oriente è abbastanza divisiva da rendere possibile l'emergere di posizioni trasversali e ai membri del Congresso di superare la disciplina di partito. Un altro elemento da considerare sarà il team che i due candidati formeranno se eletti. Le voci che circolano riguardo a chi potrà andare a occupare le posizioni connesse ai temi della sicurezza nazionale delineano due approcci radicalmente diversi. In particolare, la squadra di Trump - in cui l'ex vice assistente segretario alla Difesa Elbridge Colby potrebbe essere il nuovo consigliere per la sicurezza nazionale - appare più propensa a concentrare le risorse degli Stati Uniti sulla competizione con la Cina e a ridurre il suo impegno in altri teatri. La possibilità che Washington abbassi il suo profilo in Medio Oriente è strettamente connessa al rafforzamento e al rilancio degli Accordi di Abramo avviati da Trump nel 2020. Tuttavia, l’idea di consolidare il riavvicinamento fra Israele e i Paesi Arabi al fine di contenere l’Iran è espressione di una visione che Harris e il suo attuale Consigliere per la Sicurezza Nazionale Phil Gordon anche se è stata proprio l'amministrazione Biden ad ampliate la portata e le ambizioni degli Accordi istituendo il Negev Forum nel 2022. Harris ha ripetutamente espresso il suo sostegno alla soluzione dei due Stati e il suo desiderio di essere più assertiva nei confronti di Israele. La domanda è se sarà abbastanza forte da promuovere questa posizione di fronte ai rapidi cambiamenti che il panorama della sicurezza in Medio Oriente sta vivendo. In ogni caso, la grande assente resta una proposta reale per porre fine al conflitto nel breve periodo, premessa fondamentale per rendere realistica qualsiasi strategia di medio e lungo termine.

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