Il dilemma russo su Durov: l'arresto preoccupa anche i servizi segreti

L’imprenditore del tech nato in Russia Pavel Durov fondatore di Telegram è stato arrestato ieri dopo che le autorità francesi hanno emesso un mandato d’arresto poi sostanziatosi in dodici capi d’accusa. La richiesta di arrestare Durov è partita dall’Ofmin, ente francese che tutela i diritti dei minori. Durov, fondatore dell’app utilizzata da 900 milioni di persone in tutto il mondo per comunicare e messaggiare, è accusato di aver deliberatamente contribuito a far sì che la piattaforma diventasse un porto sicuro per operazioni criminali che vanno dalla pedopornografia al traffico di droga, passando per il terrorismo, rifiutandosi di moderare e vigilare sul funzionamento dell’applicazione. Telegram, secondo l’accusa, non avrebbe agito accuratamente per tutelare la riservatezza degli utenti né avrebbe cancellato chat e gruppi, spesso segreti, dedicati a attività illegali. E dunque a Durov, ai sensi del Digital Services Act Europeo, è stato contestato il reato di omessa vigilanza come premessa della potenziale complicità in attività illegali veicolate su Telegram. Il caso Durov tuttavia non è solo una vicenda di cronaca, ma si inserisce in una partita complessa che vede sovrapporsi la rivalità tra Occidente e Russia, il tema delle nuove sfide cyber, il rapporto tra geopolitica e tecnologia. Le questioni aperte dal caso Durov Durov, 38 anni, nato in Russia, 15,5 miliardi di dollari di patrimonio, fondatore del social Vkontakte e Telegram, fuggito oltre dieci anni fa dalla Russia dopo scontri con autorità e servizi segreti sui suoi prodotti e i rispettivi server, è indubbiamente figura controversa. E tuttavia l’arresto del fondatore e Ceo di una delle principali piattaforme di messaggistica segnala come nella regolamentazione degli abusi legati al sistema informatico globale i Paesi, specie quelli democratici, si trovano di fronte a un contesto allarmante. Come gestire a livello transnazionale network comunicativi, di influenza e gestione dati che sempre più esulano dai confini nazionali in un contesto in cui le normative divergono? In che modo gli Stati possono essere attori capaci di controllare abusi e reati senza violare, in maniera ipertrofica, libertà individuali e privacy? Sono domande che si sommano alla necessità di capire le conseguenze politiche di una dichiarazione di responsabilità verso singoli soggetti e di governare le piattaforme su cui si scambiano comunicazioni e informazioni sensibili. Il dilemma russo su Durov Su queste riflessioni si innesta il dibattito tra Occidente e Russia che l’arresto di Durov ha fatto esplodere. L’imprenditore non era certamente il benvenuto a Mosca: il regime di Vladimir Putin non è mai riuscito a bucare fino in fondo i suoi server e a far espandere su Telegram il manto della censura dopo aver costretto in passato Durov a cedere le quote di Vkontakte e espatriare. Il timore della Russia è che l’arresto del vulcanico guru del web possa essere una prima mossa di una manovra ostile, legata allo sfruttamento delle vulnerabilità tecnologiche del Paese. Secondo il Moscow Times, l'arresto di Durov preoccupa l'esercito russo impegnato nella guerra contro l'Ucraina: sembra infatti che in assenza di altri mezzi efficienti di comunicazione Telegram sia stato, e sia ancora, il principale strumento di comunicazione tra i militari dispiegati al fronte. Non c'è dubbio che i servizi segreti e le agenzie di intelligence di Putin volessero che Durov desse loro il controllo su Telegram, proprio come hanno fatto con VKontakte. In una fase di acuta rivalità tra Russia e Occidente, in cui la Francia di Emmanuel Macron è in prima linea nel ritenere Mosca una delle principali minacce alla sicurezza, l’arresto di Durov pone per Mosca un indubbio problema. Mosca e la guerra delle narrazioni D’altro canto, è comprensibile che la Russia cerchi di limitare i danni e di sfruttare, dove possibile, le incongruenze che la vicenda presenta. L’ambasciata russa a Parigi ha chiesto dettagli alla Francia sull’arresto di Durov, mentre il governo di Vladimir Putin ha rivolto a Parigi un’accusa di doppio standard. La narrazione che prevale nei canali filo-russi è chiara: è il “democratico” Macron e non il “dittatore” Putin a arrestare Durov. Una mossa che serve anche a gettare scompiglio nell’opposizione filo-occidentale, sconcertata dall’arresto di una figura la cui piattaforma era ritenuta un porto sicuro per riuscire a comunicare sotto la cappa della censura. "Nel 2018, un gruppo di 26 ONG, tra cui Human Rights Watch, Amnesty International, Freedom House, Reporters Without Borders, il Comitato per la protezione dei giornalisti e altre, hanno condannato la decisione del tribunale russo di bloccare Telegram", ha affermato la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova. "Pensate che questa volta faranno appello a Parigi e chiederanno la liberazione di Durov. La deputata Martia Butina, del partito putiniano Russia Unita, ha rincarato la dose parlando invece del fatto che Durov è un "prigioniero politico" e che il suo arresto "mostra che non c'è libertà di espressione, che quest'ultima in Europa è morta". Un argomento che colpevolizza l’Occidente su un tema in cui è decisamente opinabile pensare la Russia come a un fulgido esempio. Ma che contribuisce a favorire Mosca sul terreno della guerra di narrazioni presso sacche ricettive, anche in Occidente, ad un tale messaggio.

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