La convention ha "creato" Kamala Harris. Ma ora serve convincere gli elettori

Il partito è unito. L’avete sentito dire dopo la Convention repubblicana di Milwaukee, ma anche dopo quella democratica di Chicago. Entrambe le affermazioni sono vere. Il termine unità si presta a interpretazioni diverse. Intendiamoci, tutti e due i partiti mostrano piccole crepe. Fronde interne messe a tacere La fronda interna ai repubblicani è stata messa a tacere, dal voto delle primarie e dal rinculo emotivo della fucilata che ha ferito Trump, ma questa fronda esiste ancora. Difficile credere che l’appoggio di Nikki Haley al candidato repubblicano sia così sincero come sembrava a Milwaukee. Nel partito democratico, d’altra parte, le pressioni su Biden hanno lasciato qualche strascico. Il presidente ha ingoiato il rospo, ma gli onori che la Convention gli ha tributato sono preziosi e tristi come l’orologio da polso che nelle aziende americane i colleghi sono soliti regalare a chi va in pensione. Le correnti interne al partito, poi, non sono del tutto sopite, semmai smorzate dalla necessità di combattere il nemico comune. Tuttavia, dicevo, in entrambi i casi si tratta di crepe trascurabili. Repubblicani e democratici, oggi, sono formazioni compatte, ma in maniera radicalmente diversa. Un partito unito intorno a Harris Eliminate una dopo l’altra le residue sacche d’opposizione , Trump si è impossessato del partito, rendendolo il braccio istituzionale del movimento MAGA. È un’unità calata – anzi imposta – dall’alto: oggi il partito repubblicano è Trump. Dall’altra parte c’è una formazione che dopo qualche tentennamento e alcune settimane di ansia ha deciso di sostituire in corsa il proprio candidato, virando su quella che all’epoca sembrava la scelta più ovvia ma non necessariamente la più efficace. I pezzi grossi del partito si sono fin da subito impegnati in uno sforzo comune e organico per dare alla neocandidata un appoggio solido e forte. Kamala Harris non ha unito il partito, semmai è il partito che si è unito per Kamala Harris. Sfumature, ma sfumature importanti. La "creazione" della candidata In secondo luogo, i democratici avevano bisogno di “creare” il candidato. Non Kamala Harris, ovviamente, ma il personaggio di Kamala Harris. Non si tratta di mentire, ma di mettere in luce alcuni elementi a dispetto di altri, evidenziando quegli snodi biografici che si è deciso di caricare di senso. Kamala Harris figlia di immigrati, bimba in un quartiere working-class, rappresentante del sogno americano, lavoratrice indefessa, artefice del proprio destino anche a dispetto del destino stesso. Funziona. Procuratrice tosta con i criminali, senatrice progressista con i più deboli. Funziona anche questo, è la solida piattaforma dalla quale Harris può dire di Trump che è “poco serio, ma può fare danni seri” e dell’America che ha bisogno di un “path forward”, un sentiero per il futuro che può darle solo chi il futuro ha dovuto costruirselo. La Convention è stata il coronamento di queste due attività parallele: costruzione e narrazione. Disorganizzata dal punto di vista logistico, è stata pressoché perfetta dal punto di vista dello storytelling. Uno dopo l’altro i campioni democratici sono saliti sul palco per dire che sì, Kamala è pronta ed è la scelta più giusta per battere Trump. L’hanno fatto i Clinton, gli Obama, Nancy Pelosi, lo stesso Biden, ognuno rivendicando la paternità della scelta . Con loro parenti e amici della candidata, pronti a fornire ognuno il suo pezzo di biografia corale. Il ring è pronto L’abile strategia democratica ha fatto sì che il recupero di Kamala Harris nei sondaggi appaia oggi come un vantaggio soverchiante, invece che come una notevole rimonta. Conviene ricordare che la sfida rimane un testa a testa e nulla è ancora deciso. Archiviata la Convention, aumenta il rischio che lo slancio democratico si esaurisca, che Harris o Walz possano incappare in un passo falso, che la pressione della stampa aumenti. La sfida delle presidenziali entra nel vivo, il gioco si fa duro. Posate il fioretto, ora servono i guantoni.