Disastro di Marcinelle, identificata l'ultima vittima grazie al DNA di una cugina

“Eccoti carissimo Rocco”. Ha gli occhi lucidi di commozione e felicità Franca Evangelista. Grazie al suo DNA è stato possibile riconoscere i resti di una delle ultime 12 vittime del disastro di Marcinelle formalmente rimaste senza un riconoscimento. “Mia madre e suo padre erano fratelli”, racconta. Una tragedia dell'emigrazione italiana I loro nomi si sapevano, ma per le famiglie di chi perse la vita l’8 agosto 1956 era importante chiudere in modo più completo questa pagina così dolorosa del nostro Paese. Nella primo dopoguerra, fra il 1946 e il 1959 cinquantamila italiani emigrarono verso il Belgio in cerca di un lavoro e un futuro per le proprie famiglie. Un trattato tra Italia e Belgio prevedeva che i lavoratori italiani venissero destinati alle miniere di carbone e in cambio assicurava all’Italia una determinata quantità di carbone per ogni minatore inviato in Belgio. La mattina dell’8 agosto 1956, nella miniera di Bois du Cazier un incendio causato dalla combustione di olio ad alta pressione si sviluppa nel condotto d'entrata d'aria principale, rapidamente riempie di fumo tutto l'impianto sotterraneo. I cunicoli sotterranei scavati per estrarre carbone dal sottosuolo scendono nel ventre della terra fino a oltre mille metri di profondià. Laggiù nel buio più profondo lavorano centinaia di uomini. 262 di loro muoiono; 136 sono immigrati italiani, tutti abruzzesi. Il riconoscimento tramite il DNA Non tutte le vittime furono identificate. Rocco Ceccomancini è l’ultima ad essere stata identificata. “Un nostro cugino che viveva ancora in Belgio ci teneva che Rocco venisse identificato” -racconta la signora Franca- “Io non ho mai conosciuto Rocco, all’epoca del disastro avevo due anni e in casa non si è mai parlato tanto del disastro. Ma questo cugino avendo vissuto fino alla sua morte là in Belgio sapeva di questo ragazzo”. Per il riconoscimento serviva il DNA di un parente diretto e Franca era la candidata migliore. “Mi hanno chiesto di prendere uno spazzolino da denti usato, farlo seccare e metterlo in una busta apposta. Ho spedito tutto quanto in Belgio. Poi dopo un bel po’ di tempo mi è arrivata una risposta: era lui, il mio DNA era compatibile con quello di Rocco. Era mio cugino, era mio cugino”. Un cugino lontano, mai conosciuto, ma che aveva gli stessi occhi del padre di Franca. “La prima volta che ho visto la sua foto ho detto: ha gli occhi di mio papà”, spiega guardando ammirata il foglio con sopra l’immagine in bianco e nero di questo cugino lontano. Ora la memoria di Rocco può riposare Per la sua famiglia si chiude un cerchio rimasto a lungo interrotto. “Non mi è costato nulla, anzi, ho immagazzinato una cosa bella. Proprio bella”, dice Franca. Non avrebbe mai immaginato di potere dare un contributo decisivo e oggi ne va orgogliosa. Orgoglio misto a memoria. Anche suo padre fu costretto a lasciare l’Abruzzo per andare in Belgio, a Marcinelle e lavorare nella stessa miniera dove era avvenuto il disastro. “Era il 1956, mio padre aveva tre figli e la moglie. Dovevamo pur vivere in qualche maniera: nutrirci, vestirci. Gli ci è voluto un bel coraggio a salire in Belgio dopo quello che era successo. Prima è salito lui, poi ha fatto salire anche noi”, continua nel suo racconto Franca. Ma per questioni di salute la famiglia Evangelista restò pochi anni lassù. Una volta tornati le miniere erano un ricordo. “In cantina tengo ancora la lanterna di mio padre. Sì, è tutta impolverata e non funziona più, ma è un suo ricordo”, ci dice mentre gli occhi le si riempiono di lacrime e la voce si fa incerta per l’emozione.

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