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Sessanta anni fa la morte di JFK, un mito americano

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Marco Congiu

Marco Congiu

L’omicidio di John Fitzgerald Kennedy (Dallas, 22 novembre 1963) è uno di questi. Come l’attacco a Pearl Harbor, la conquista della Luna, l’11 settembre: coloro i quali li hanno vissuti, li ricorderanno per sempre

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Ci sono momenti, nella vita di una Nazione, che ne definiscono il carattere -e la Storia- per generazioni.

L’omicidio di John Fitzgerald Kennedy (Dallas, 22 novembre 1963) è uno di questi.

Come l’attacco a Pearl Harbor, la conquista della Luna, l’11 settembre: coloro i quali li hanno vissuti, li ricorderanno per sempre.

Sessant’anni dopo, come per tutti quelli che muoiono giovani e il tempo non corromperà mai, “JFK” è ancora un mito americano.

Ma è un mito sbiadito, un sogno lontano, più che un segno lasciato nel Paese che quel giorno -insieme al suo 35esimo presidente- ha perso anche la speranza.

I Sessanta furono anni irripetibili; e per quell’epoca Kennedy era perfetto.

Bello, democratico, benestante, beneducato.

La televisione era nata da poco ed ebbe un ruolo non irrilevante nella narrazione di Camelot, il regno fatato di cui Jack era il principe. E nella sua ascesa politica fino alla Casa Bianca.

L’aggettivo “Kennediano” divenne un modo di essere. Naturalmente elegante, senza ostentazione. Da Boston (la più europea, sciccosa e altezzosa città d’America) a Cape Cod (il buen retiro sulle coste del Massachussetts, simbolo di libertà).

Fino a Washington.

Dove chiarì fin da subito lo spirito del suo impegno: “Non chiedetevi cosa può fare per voi il vostro Paese-disse nel celebre discorso di insediamento sulla scalinata del Campidoglio- chiedetevi cosa potete fare voi per il vostro Paese”.

Kennedy mescolava tutto: Jackie e Marilyn, l’impegno politico e sociale, aiuti per l’istruzione, sanità pubblica, diritti civili (che pure non fece in tempo a veder trasformati in legge) insieme allo sguardo internazionale, il terrore di Cuba finito nel disastroso tentativo di invasione alla Baia dei Porci, la crisi dei missili risolta con il presidente sovietico Krushev e la de-escalation nucleare, per arrivare a quell’inno alla libertà e alla democrazia davanti a un muro, in Germania, dove con quattro parole in tedesco (“Ich bin ein Berliner”, “io sono berlinese”) gettò le basi per lo storico evento di quasi trent’anni dopo.

Con poche parole, in appena mille giorni, Kennedy ha fatto la Storia con la S maiuscola.

Anche guardando più avanti di tutti, verso il futuro e oltre.

Come quando -era il settembre del 1962- annunciò l’ambizione di mandare un uomo sulla Luna entro dieci anni (successe in sette).

Ma le favole, naturalmente, non esistono. E un venerdì pomeriggio in Texas l’incantesimo finisce.

La speranza che il fratello minore Bobby possa continuarlo si spezza quando anche lui -candidatosi presidente- cinque anni dopo viene assassinato.

Oggi l’America è molto diversa.

Ma da sessant’anni -per quanto flebile- c’è una fiamma, al cimitero Nazionale di Arlington, che non si è mai spenta.

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