Il destino è nel tradimento: quanto sono umani “I colpevoli” di Pomella

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Filippo Maria Battaglia

IL LIBRO DELLA SETIMANA La storia di un abbandono e di un ritrovamento si trasforma in una memoria sincera e affilata, che non ripiega mai in una confessione narcisistica

Trentasette anni, tredicimilacinquecento giorni, trecentoventiquattromila ore. È grande all’incirca così il vuoto che separa un padre da un figlio nell’ultimo romanzo di Andrea Pomella, intitolato “I colpevoli” e pubblicato da Einaudi (pp. 216, euro 18,50). È un vuoto che prende avvio da una lettera di quattro parole (“Non voglio più vederti”) che il protagonista scrive al padre quando ha appena compiuto sette anni rimproverandogli di aver abbandonato la famiglia e di aver scelto un’altra donna. Ed è attorno a questo vuoto che Pomella racconta una storia sincera e affilata.

Il distacco 

Il distacco di questo figlio è violento e rabbioso e trasforma le lacrime in “minuscole schegge di ghiaccio”. Quando, quattro decenni dopo, toccherà colmarlo, non sarà facile. Quel vuoto, infatti, “non è solo un vuoto di sentimenti, ma di eventi, di aneddoti, di consuetudini”. A complicare le cose ci pensa poi la consapevolezza di sapere che “ciò che ora siamo è il risultato  di questa distanza: tu e io siamo un cumulo di circostanze che non riusciremo mai a riepilogare, neppure se un dio benevolo ci concedesse altri trentasette anni da trascorrere insieme”. E non è un caso che, per avviare un reale confronto, il protagonista avvertirà la necessità di credersi a sua volta colpevole.

 

Un dolore che si riscatta nella narrazione

 

Il romanzo di Pomella è una memoria autobiografica, che brucia, sanguina, racconta un abbandono e tracima disperazione. Il suo bello però è che non ripiega mai in una confessione narcisistica.  Insieme alla densità di tutto questo, c’è il racconto dell’adolescenza trascorsa in una terra che non è né un quartiere né una borgata,  il tempo trascorso nelle bande di adolescenti, la vita di una tipica famiglia anni Ottanta erede di quelle che nel dopoguerra hanno ingrassato la cinta di Roma. La storia si libera così da un’oppressione, o meglio la sublima grazie alla narrazione. Perché del resto,  come scrive Pomella, “uno scrittore non potrà mai essere se stesso nella pagina scritta, così come un attore non sarà mai capace d’inscenare un monologo nella vita privata che non sia adulterato dal proprio talento”.

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