Così Munch ci racconta ansia e paure di oggi

Dell' "Urlo", l’opera più celebre di Edvard Munch, la mostra in corso al Palazzo Reale di Milano presenta una litografia. Eppure, essa da sola basta a farci comprendere il perché, proprio l’Urlo, sia diventata un’opera icona della sofferenza umana, personale dell’artista e collettiva di tutto il Novecento. La scena descritta è ambientata nei pressi di Oslo, lungo una stradina, sulla collina di Ekberg. Al tramonto - raccontò proprio Munch, a proposito della genesi del quadro - mentre passeggiava con alcuni amici, che nella scena sono dipinti a pochi passi da lui, il cielo si colorò di un rosso sanguigno. Fu allora che una grande spossatezza si impadronì di lui. Costretto a fermarsi, si appoggiò a una staccionata, mentre lingue di fuoco sopra al blu e al nero del fiordo e della città animavano il cielo. L'inquietudine universale “L’Urlo”, spiega lo storico dell’Arte Costantino D’Orazio, che ha collaborato per la redazione dei testi di approfondimento in mostra, “prima di tutto è un momento personale, che Munch è riuscito a trasformare in un’esperienza universale. È vero”, spiega ancora D’Orazio “che dai suoi diari sappiamo che stava camminando lungo un fiordo, nei pressi di Oslo, al tramonto e a un certo punto si è sentito sovrastato dai colori, dalla luce, di quella Natura. Però, in realtà, avrebbe potuto autoritrarsi, come ha fatto più volte nei suoi quadri. Invece, in questo caso, ha deciso di dipingere un volto senza età, senza genere, senza alcun tipo di riferimento che ci permetta di individuarlo, perché è un volto in cui tutti ci possiamo riconoscere. Quindi, è per questo che “L’urlo” è espressione dell’inquietudine universale e lo è per sempre, da quando lui lo ha dipinto. È anche per questo”, dice sorridendo Costantino D’Orazio “che poi è diventato un emoji, sui nostri telefoni, che a tutte le latitudini utilizziamo, perché ci possiamo tutti riconoscere in lui”. Fondersi col notturno Costantino D’Orazio sottolinea anche l’attualità di Munch. “È un pittore attuale perché non ha mai avuto paura di affrontare momenti ed emozioni assolute. Quando esordisce parla di morte, la morte che tutti noi incontriamo nelle nostre famiglie; parla di amore, un amore che - però – non è soltanto il sentimento che ci accoglie, come è all’inizio del suo momento pittorico dedicato al sentimento; ma è anche un amore che ci inquieta, un amore che può finire anche in modo drammatico. Munch, è anche un artista”, incalza D’Orazio “che nella seconda parte della sua carriera, quando, forse, calma alcune sue inquietudini, riscopre una luce straordinaria e dipinge paesaggi meravigliosi. È un artista che ha cambiato molto, durante la sua carriera e in questa mostra le diverse fasi sono tutte documentate”. Un autore che racconta bene la disperazione, Edvard Munch, eppure, capace anche di descrivere la speranza: una speranza che c’è alla fine. “È un artista”, afferma D’Orazio “che se dipinge dei notturni, sono dei notturni in cui capisce che la Natura non incombe, ma l’Uomo si può – in realtà - fondere con essa. È un artista che in questa mostra cercheremo di far scoprire anche da un punto di vista diverso. Quello, cioè, di un uomo estremamente curioso della vita e anche del contesto nel quale la vita si svolge”. Arte viva L’attualità dell’artista norvegese è sottolineata anche da Patricia G. Berman, curatrice della mostra. “Penso che Munch sia vivo per noi adesso, che il suo lavoro sia vivo. Prima di tutto, noi non lasciamo mai andare le nostre emozioni, ma lui sembra essere in grado di ritrarre le emozioni interiori in modo così diretto attraverso la pittura o attraverso la stampa che quando lo vediamo, lo vediamo direttamente, sentiamo con lui. Penso che, soprattutto dopo la pandemia, quando siamo stati così isolati e poi ci siamo riaperti al mondo, il suo lavoro parli in un modo molto diverso. Penso anche che i dipinti stessi e le stampe siano pieni di sperimentazione. Quindi, è una delizia per gli occhi, anche quando dipinge motivi davvero tristi. Li dipinge con enorme energia”. L’Urlo non è che una delle cento opere del percorso espositivo milanese, alcune mai viste in Italia. Lavori che esprimono disagio, che disturbano, colpiscono, disorientano. Quadri che raccontano storie, spesso dolorose, di grande sofferenza, di introspezione, di difficoltà e paura. Una vita di perdite Edvard Much ebbe una vita difficile. Orfano ben presto di sua madre, perse da giovane anche sua sorella e tragicamente suo padre. Circostanze che, evidentemente, ne condizionarono la poetica e l’arte, inducendolo a dipingere spesso situazioni cupe e angoscianti. Scrive Patricia G. Berman, che è una delle massime studiose di Munch al mondo, che “molte delle sue opere rendono la sensazione di perdita provata da un testimone di fronte alla morte di una persona, mentre le rappresentazioni di allucinazioni, ombre allungate dietro alle figure e rivoli di pittura che evocano l’immagine di corpi che si dissolvono, vogliono suggerire il modo in cui i pazienti fanno esperienza del mondo”. Tutto ciò è espresso bene in diverse opere esposte, come “Sera. Malinconia” o “Visione”, o ancora “La bambina malata”, “Sul letto di morte”, “Lotta contro la morte”, “Disperazione”, soltanto per citarne alcune. Le opere della mostra Passeggiando per le sale dell’esposizione, si incontrano, tra le altre, “La morte di Marat”, opera nella quale Munch riprodusse l’ultimo incontro con la sua amante, Tulla Larsen. Nel quadro, il pittore dipinse sé stesso come Jean-Paul Marat, il rivoluzionario francese, mentre Tulla come Charlotte Corday, la donna responsabile, nel 1793, proprio dell’omicidio di Marat. Insomma, Munch usò l’episodio per rendere in maniera plastica i suoi ricordi, riportati sulla tela in maniera piuttosto cruda: nel quadro alcune chiazze di pittura rimandano - evidentemente - agli schizzi di sangue. Munch fu ossessionato da Tulla, personalità forte che lui ricordava spesso nei suoi diari e nelle sue lettere. “La morte di Marat”, che ho portato dentro di me per nove anni, non è stato un dipinto facile”, scrisse il pittore. Altro lavoro molto significativo, tra quelli esposti, è “Notte stellata”. L’artista dipinse molte vedute notturne, nel corso della sua carriera. Vedute immortalate dal balcone della sua casa a Ekely, alla periferia di Oslo. Verso la fine dell’800 già si dedicava a questo genere di opere, dove i cieli sembrano prendere vita, grazie alle pennellate di Munch. “Notte stellata”, ci rimanda immediatamente all’omonima opera di Vincent Van Gogh: anche Munch, così come il genio olandese, riteneva che tutto ciò che era Natura possedesse un’anima. Non solo espressionismo Simbolista, espressionista, soprattutto pittore unico. Edvard Munch seppe come pochi esplorare l’inconscio e lo fece con un uso totalmente inventato del colore. Diversa è, in Munch, anche la disposizione della scena: il posizionamento dei personaggi, il modo in cui utilizza lo spazio o definisce il rapporto con chi guarda. Tutto contribuisce a farci capire perché ha avuto tanta influenza sugli artisti che vennero dopo di lui, in modo particolare su quanti aderirono all’Espressionismo. È in grado, nei suoi dipinti, di presentare i suoi personaggi da soli, anche quando sono in gruppo. Come accade nel quadro “La morte nella stanza della malata”, dove l’esperienza del dolore è vissuta in maniera autonoma: nessuno si parla, nessuno si guarda e nessuno cerca conforto negli altri. Munch è comunque, innegabilmente, un pittore che ci fissa negli occhi. Lo fa attraverso i protagonisti dei suoi quadri, che ci guardano da vicino, in primo piano, talvolta minacciosi, altre guardinghi, altre ancora sfidanti. Non hanno lineamenti definiti, spesso non hanno volume, eppure, ne siamo magneticamente attratti; lo siamo dal loro vuoto, dalla loro angoscia, inquietudine, sofferenza. Lo siamo perché sono gli stessi sentimenti che, talvolta, ci animano. Non possiamo smettere di guardarli, né possiamo fuggire, così come non possiamo smettere di guardarci dentro o fuggire da noi stessi. “Edvard Munch. Lo sguardo interiore”, accoglierà i visitatori fino al 26 gennaio e ad arricchire la mostra milanese, è in programma un ricco palinsesto di eventi che coinvolgerà diverse realtà culturali della città, per approfondire la figura dell’artista, nato in Norvegia dal 1863 e vissuto fino al 1944.