Donatella Di Pietrantonio: "Non c'è più dialogo tra generazioni"

Donatella Di Pietrantonio ha vinto il Premio Strega 2024 con un romanzo che ruota attorno a un caso di cronaca del 1997, il barbaro duplice femminicidio di due giovani donne, sue coetanee, che si consumò in un bosco non lontano da dove è cresciuta. Prima di raccontarlo Di Pietrantonio ha aspettato quasi trent'anni, perché per comprendere e metabolizzare certe violenze e certi traumi occorre farli sedimentare, senza avventarsi. In queste settimane di fine estate, scandite dall'efferatezza della cronaca e dall'opinionismo che si fa largo attraverso tutti i possibili canali di comunicazione, L'età fragile suona come una lezione e un ammonimento. Abbiamo incontrato Donatella Di Pietrantonio al Festivaletteratura di Mantova e con lei abbiamo ripercorso la sua "prima vita", quella precedente all'esordio da scrittrice avvenuto all'età di 49 anni. “Non è stato tempo sprecato, perché non ho mai smesso di scrivere”, ha detto. Come ha passato la sua estate da vincitrice del Premio Strega 2024? Ho passato l'estate in giro per festival e presentazioni. Impossibile scrivere. Il ritorno alla scrittura è ancora lontano. Non è ancora arrivato il momento del ritiro, del silenzio, del vuoto che richiede la scrittura. Ha avuto tempo anche di tornare nel suo Abruzzo? Tra una tappa e l'altra del "Grand Tour", ho sempre bisogno di passare dal via, di tornare a casa. Il tema dell'incomunicabilità tra generazioni è portante ne L'età fragile. E negli ultimi giorni, dopo la Strage di Paderno Dugnano, anche e proprio questo tema è stato messo sul tavolo. Lei cosa ha capito scrivendo il suo libro? Io credo che la necessità di parlarci tra generazioni sia passata a un certo punto - non so dire quando - in secondo piano e sia finita sullo scaffale delle cose scontate e banali. Insomma, lo sappiamo che si deve fare, è una specie di tappezzeria che rimane sullo sfondo, che non viene mai veramente incarnata nella nostra vita. E per questo la necessità di parlarsi va sempre riaffermata. Se devo riferirmi all'ultimo terribile episodio di cronaca, per una volta ho sentito solamente il bisogno di restare in silenzio e per rispondere alla prima domanda, "Ci capiamo?”, direi evidentemente non abbastanza. Si è messa nei panni di Amanda, una ragazza appena ventenne che dopo un trauma lascia l'università, scappa via dalla città in cui ha iniziato il percorso di studi e torna a casa chiudendosi in un silenzio carico di sofferenza. Cosa ha scoperto sulle nuove generazioni immergendosi in questo personaggio complesso? Amanda è una giovane donna di oggi, contemporanea, ha venti'anni nel 2020, all'inizio del Covid. Mi sono fatta strada nel suo ritiro, nella sua stanza chiusa, nel silenzio che sembra così patologico, in quella che oggi sembra un'interruzione dal flusso della vita. Ho capito che a volte le pause sono necessarie. Parliamo di quelle pause che da fuori sono percepite come malattia e anomalia, ma non è detto che siano sbagliate, in quelle pause ci sono delle cose preziose che germinano nel futuro. A volte i ragazzi devono prendersi una pausa. Nelle ultime settimane tra la Strage di Paderno Dugnano e, prima, l'omicidio Verzeni, la cronaca ha scandito le giornate degli italiani. Anche nel suo romanzo la cronaca nera è centrale, ma le ci è voluto molto tempo per raccontare quella vicenda dolorosa. Ci avventiamo troppo presto sui fatti di cronaca senza aspettare che si sedimentino? Un po' sì e a caldo nell'immediatezza non è sempre facile rielaborare quello che accade, a volte la distanza è necessaria per avere distacco oggettivo e poter capire davvero. Ho avuto bisogno dopo trent'anni di rinominare quel fatto, che nel libro viene chiamato proprio "il fatto” dalla piccola comunità, ho avuto bisogno di rinominarlo con la consapevolezza dell'oggi. Trent'anni fa lo avrebbe raccontato diversamente? Trent'anni fa lo avrei raccontato sulla spinta di una forte emotività e l'emotività del momento non è mai una buona consigliera. Anche in letteratura, quando si decide di affrontare temi reali ci vuole uno sguardo da lontano. E a proposito di trent’anni fa, lei negli anni Novanta faceva altro. Dopo gli studi, è diventata odontoiatra. Forse quando ha vinto lo Strega non è stato dato abbastanza rilievo al fatto che lei per quasi cinquant'anni è stata “altro”. È riuscita a pubblicare solo nel 2011. Lei ci pensa alla sua prima vita? Bella domanda. Io non credo che la mia prima vita sia stata sprecata e sottratta alla letteratura, non credo sia stato un tempo perso, proprio perché ho sempre scritto. Da quando ho imparato a scrivere a sette anni, ho sempre sempre scritto. È vero, da adulta non ho avuto un confronto con la critica e con il mondo letterario e questo confronto è arrivato tardi, ma è stato tutto uno scrivere e leggere, scrivere e leggere. E c'è stata per questa ragione in quegli anni da aspirante scrittrice un'evoluzione come autrice. Sono andata avanti da sola, in solitudine e in ritiro, ma la mia scrittura non si è fermata ed è cambiata. Quando ho esordito, avevo quasi cinquant'anni e io stessa mi sono definita una esordiente attempata, ma nel frattempo avevo affinato i miei strumenti da sola. In che modo? Avevo trasformato la mia lingua giovane e immatura. Agli inizi avevo un modo molto complesso di scrivere: uno stile ridondante, stratificato, perché da giovane dovevo dimostrare di sapere l'italiano. Ero di madrelingua "dialetto abruzzese", quindi avevo di riflesso questa forma sovrabbondante di scrivere. Poi sempre da sola ho iniziato piano piano a sottrarre, a togliere, invece che aggiungere, e sono arrivata a quella che è la mia forma. Torniamo sempre sulle sue origini. Nelle ultime ore poi ha lanciato un appello contro la caccia selettiva dei cervi nella sua regione. Con la natura ci stiamo comportando male? Stiamo combinando dei grandi misfatti. Sono figlia di quella natura abruzzese: sono cresciuta con gli animali, nel verde. Oggi lo dico con serenità, ma da bambina avevo paura. Paura perché mi trovavo spesso da sola con una natura così imponente che mi stava addosso. Ma quello che ho imparato è questa necessità di convivenza tra umani e selvatici. Pensare che tra pochi giorni si potrà pagare per andare a sparare ai cervi mi riempie di tristezza. Mi sento risospinta in un mondo primitivo e violento, ma senza che ci sia più la necessità di essere primitivi e violenti, perché per i cacciatori è puro divertimento. E riguardo ai problemi dei danni all'agricoltura e agli incidenti stradali che causerebbero i cervi, sappiamo tutti che potremmo impegnarci in tanti modi per risolvere questa questione con maggiore sensibilità. Cosa rappresenta per lei il Festival di Mantova? Mantova è un'occasione per chi legge e per chi scrive. Occasione di ascoltare chi ha scritto le pagine che amiamo, mentre per chi scrive è una magnifica opportunità di incontro: la scrittura è un'attività tremendamente solitaria. È anche bello stare sulla pagine in solitudine, cercare la parola, cercare i movimenti. Scrivere un libro lo puoi fare soltanto con quella solitudine, ma è bello e c'è bisogno anche di incontrarsi con altri autrici e autori, scambiarsi idee e raccontarsi a vicenda il lavoro. Sull'altro fronte è bellissimo arrivare al momento della restituzione e raccogliere le loro impressioni e domande. Io capisco molte cose di quello che ho scritto durante gli incontri con i lettori. Quando consegni un libro alla casa editrice e lo dai alle stampe, sai molto poco di quel libro, conosci solo la parte emersa dell'iceberg.