Linda e il pollo: l'animazione che parla ai bambini ma li tratta come adulti

Linda e il pollo, al cinema dal 5 settembre con I Wonder Pictures, è un film che si muove in due direzioni contemporaneamente: segue il suono, che è l’elemento su cui è stato costruito, come racconta Chiara Malta, co-regista con Sébastien Laudenbach, e si allarga come i colori che riempiono e identificano ogni singolo personaggio. È una storia di crescita che parla di perdita e di lutto, e di consapevolezza, di infanzia e di età adulta. Il tratto delle animazioni è veloce, quasi sporco, e si impegna al massimo nel restituire un dinamismo preciso allo spettatore. Senza l’opera prima di Laudenbach, dice Malta, Linda e il pollo non ci sarebbe stato. O meglio: ci sarebbe stato ma non così, non in questo modo. Lavorare in due, spiega, significa esserci l’uno per l’altro, migliorarsi e puntare tutto sul film. Linda e il pollo è bellissimo ed è frenetico come un pezzo jazz: rispecchia un realismo concreto, non apatico, che fotografa la società in cui viviamo. Si rivolge ai bambini onestamente, senza prenderli in giro: riconosce la loro complessità, la valorizza e la mette in scena. Quando ne parla, Malta ne è assolutamente convinta. Come nasce l’idea di Linda e il pollo? C’erano tanti desideri. Innanzitutto quello che volevamo fare era un film per bambini, che però non li trattasse come dei cretini. Volevamo usare la stessa franchezza, la stessa intelligenza e lo stesso desiderio che di solito si usano quando si parla agli adulti. Volevamo fare un film di valore; non volevamo scendere a compromessi su niente. In che senso? Ho la sensazione che alcuni film per bambini, quando si rivolgono ai bambini, tendano ad abbassare l’età, come se fossero ancora più piccoli. Volevo dare totale fiducia ai bambini con Linda e il pollo, e rivolgermi a loro quasi in assenza dei genitori. Perché? Perché spesso, quando i genitori portano al cinema i bambini, li portano a vedere dei film in cui quella che viene raccontata e restituita è un’idea completamente adulta dell’infanzia: un periodo ricco, spensierato, fatto di leggerezza e gioia. E non è così. Non è quello che vedono i bambini. E che cosa vedono i bambini? Sicuramente non pensano che gli animali siano immediatamente i loro migliori amici. Io volevo parlare del dolore riuscendo comunque a far ridere il pubblico. Volevo essere franca sulle cose della vita. E poi volevo inserire questa storia all’interno di un contesto urbano, che è quello in cui crescono i bambini. In questo modo, i bambini vengono visti per ciò che sono: una parte della società e non estranei a essa. Dove sono, invece, i genitori? Per quanto riguarda i genitori, volevo che venissero rappresentati in modo onesto. Non per forza come eroi o come esseri perfetti, di cui seguire ciecamente l’esempio. I bambini quando tornano a casa si deprimono, perché riconoscono la verità della situazione in cui si trovano; capiscono che i loro genitori non sono come quelli dei film Disney. Perché avete scelto di raccontare questa storia con l’animazione? Sicuramente perché crea un legame più immediato con un pubblico più giovane. Però quello che volevamo fare era un film di animazione più libero. Inizialmente, pensi, parlavo sempre di un film in animazione della Nouvelle Vague. Mi sembra che molti lungometraggi di animazione soffrano di una certa pesantezza, proprio com’era per il cinema francese prima dell’arrivo della Nouvelle Vague: dialoghi, impostazioni, una catena di lavoro vincolante che appesantiva lo sviluppo e le riprese. Io volevo leggerezza. Da dove è partita? Dal suono. Non volevo privarmi della presa diretta, dell’improvvisazione e del punto di vista della recitazione. Volevo scardinare dei modi rodati che nella maggior parte dei casi contraddistinguono l’animazione e che finiscono quasi per ingessare i film. Tutte le sagome dei personaggi sono sempre aperte: mai definite o uguali. Che cosa volevate rappresentare? È un elemento che racconta il flusso della vita, se ci pensa. Perché nella vita non siamo mai uguali, mai identici, cambiamo in continuazione. C’è sempre una possibilità di riscatto, di migliorare, di chiedere scusa e di sbagliare. In più, c’era pure un aspetto tecnico. Quale? Nei film di animazione, viene usato come riferimento il model sheet: un modello da seguire in tutto e per tutto e da riportare costantemente, in ogni sequenza. Ecco, io non lo volevo. Volevo che le animazioni fossero libere, anche sporche, e che seguissero quasi un andamento altalenante. Di solito gli animatori passano la maggior parte del tempo a cercare di rendere riconoscibili i personaggi. Se però ci pensiamo, nei film gli attori non hanno sempre la stessa faccia. Anzi, più un attore diventa irriconoscibile, più viene apprezzato. Linda, la protagonista, è sempre differente. Ciò che la contraddistingue è il suo colore, il giallo. A proposito di colori, sono estremamente importanti nel film. Prima sono puntini, poi bolle, poi pezzi interi delle scene; infine tornano a essere puntini. All’inizio servivano per rendere le proteste che vediamo gioiose, piene di sfumature. Un po’ per riflettere quelle che sono le aspirazioni dei manifestanti. Insomma, volevamo restituire alla contestazione la sua dimensione collettiva e nei campi lunghi questi colori diventano quasi dei coriandoli. Per quanto riguarda le bolle che si vedono nella prima e nell’ultima parte del film, invece, volevamo abbracciare la teoria di Jung: noi, del passato, abbiamo un ricordo spezzettato, non continuo; e così ogni momento è come una bolla. Ti ricordi una cosa della tua infanzia e tutto il resto ti sembra nero. E questa è una cosa che personalmente mi dispera, perché sembra quasi che la nostra vita si risolva in quattro scene. Ci sono riferimenti personali in Linda e il pollo? In un certo senso sì. Per esempio, mio padre che ora ha 80 anni ha perso abbastanza presto i suoi genitori. E gli mancano ancora oggi, come fosse il primo giorno. Gli basta pensarci per emozionarsi. La cosa incredibile, però, è che lui non se li ricorda: non si ricorda com’erano fatti e non si ricorda la loro faccia. E questo succede anche a Linda, che non riesce a ricordare il viso di suo padre benché le manchi moltissimo. La verità è che possiamo sentire l’assenza anche di qualcosa di cui non conserviamo il minimo ricordo. In questo film gli adulti sono pochissimi, si contano appena sulle dita di una mano. Perché? Perché volevo ribaltare quello che viene fatto di solito. Nei film, i bambini sono quasi sempre la minoranza. Non decidono niente; in un certo senso, anzi, subiscono. C’è una debolezza innegabile nell’infanzia. Qui, invece, sono il centro di tutto: Linda e il pollo è dedicato a loro, prova a valorizzarli e a mostrare quanto siano ridicoli e fallibili gli adulti. I bambini conoscono profondamente la forza del collettivo, dello stare insieme. Questo non significa che sono sempre gentili, attenzione. Ma sono franchi. Linda e il pollo è un elogio dell’infanzia? No, per carità. Siamo noi adulti che ce la ricordiamo come una cosa bellissima e stupenda. E poi, se devo essere onesta, tutti i personaggi riescono a commuovermi. Perché anche gli adulti, qui, sono in parte bambini. Così come i bambini sono in parte adulti. C’è spazio anche per la musica. Come mai? Quelle che sentiamo sono canzoni che hanno uno scopo specifico, non vogliono solamente intrattenere. Vogliono anche dire qualcosa; fanno parte del racconto. Quando ero piccola, non mi piacevano molto i momenti musicali dei film che vedevo. Mi annoiavano. Stavolta abbiamo provato a dare un obiettivo alle canzoni: c’è la sofferenza della madre di Linda, che sembra sempre sul punto di non farcela più; e c’è il desiderio per Linda di rivedere suo padre, di cui non ricorda praticamente niente. A me, poi, piace scrivere canzoni. Che cosa hanno in comune il cinema e la musica? Entrambi, secondo me, coincidono con il sogno. Ti portano altrove, in un’altra realtà. Proviamo emozioni fortissime quando ascoltiamo la musica, e i film, come diceva Truffaut, non hanno i tempi morti della vita. Che cosa offre di più l’animazione rispetto al live action? Io vengo da lì, dall’animazione. Il mio primo cortometraggio aveva sia immagini dal vero che immagini animate. È un linguaggio che va usato, secondo me, a seconda della storia che si vuole raccontare. Nell’animazione, poi, mi sembra che ci sia ancora spazio per esplorare. Nel cinema dal vero ci sono tanti meccanismi che tendono a ripetersi. Con l’animazione, la forma gioca un ruolo fondamentale. Prima mi diceva che sta già lavorando a un nuovo film animato. Sì. Mi piacerebbe raccontare una storia con degli animali. Però voglio pormi tante domande. Nell’animazione, gli animali di solito parlano. Ma io voglio capire il motivo e voglio ripartire, così come ho fatto per Linda e il pollo, dal suono. Perché gli animali parlano? Che cos’è successo per farli parlare? E che cos’è l’antropomorfismo quando parliamo di animazione? Così sembra tutto molto teorico, lo so. L’arrivo della parola, nel racconto, deve significare qualcosa. La forma può coincidere con il contenuto finendo in questo modo per determinarlo? Certo. In Linda e il pollo le due cose sono andate di pari passo. Io e Sébastien ci conosciamo da tantissimo tempo; lavoriamo insieme oramai da 20 anni. E ci influenziamo a vicenda. Anche in Linda e il pollo gli animali sono presenti. Al di là del pollo, che dà il titolo al film, c’è anche un cane che riesce quasi a riconoscere l’innocenza e la rabbia di chi gli sta davanti. Ci siamo mossi come se si fosse trattato di un film girato dal vero, in questo caso. Il pollo, per essere mangiato, deve essere ucciso. E anche se gli animalisti mi attaccheranno per quello che sto per dire, è importante restituire ai bambini la verità su ciò che mangiano: quello che compriamo al supermercato deve affrontare un processo; non nasce tutto già inscatolato e pronto. E questo, in qualche modo, riavvicina i bambini anche al tema della morte. I bambini hanno bisogno di sentirsi parlare in modo diretto, non di sentirsi dire delle bugie. La verità è che sono gli adulti a non sostenere la verità, non i bambini. I bambini tendono a fidarsi di quello che diciamo. Com’è lavorare a un film con un altro regista? Tra lei e Sébastien Laudenbach chi aveva l’ultima parola? Non credo che sia una questione di ultima parola. Per noi non è stato così. Io lavoro con Sébastien perché so che può migliorare quello che faccio, e lo stesso penso che valga anche per lui. Io mi sono occupata della regia, delle registrazioni audio, della scrittura e dei punti macchina; Sébastien ha avuto una supervisione artistica sulle animazioni. Il film va verso sempre l’altro, e noi, insieme, finiamo per sommarci e moltiplicarci. Per fare Linda e il pollo, abbiamo deciso di aspettare. Che cosa? La storia era pronta da un po’, ma era importante che Sébastien facesse il suo esordio con il suo primo film, La Jeune Fille sans mains. L’ha disegnato da solo e l’ha fatto perché ne ha avuto la possibilità quando l’ho ospitato a Villa Medici dove ero residente: io lavoravo alle mie cose e lui alle sue. Questo film ha un altro tono rispetto a Linda e il pollo, è molto più malinconico; parte da una storia dei fratelli Grimm. Sébastien l’ha praticamente autoprodotto, e per finire andava di velocità, concentrandosi sul movimento. Ha fatto una scommessa sulla persistenza retinica, affidandosi a ciò che l’occhio vede e tende a ricomporre. Come si fa, le chiedo, a partire dal suono quando si parla di animazione? Con Linda e il pollo, siamo letteralmente partiti dagli attori, dalle loro voci e dall’improvvisazione che, di volta in volta, si è creata in scena. Non abbiamo girato, ma abbiamo ricreato ogni momento del film. E ci abbiamo lavorato per sei settimane. In questo modo, ho potuto mettere alla prova la sceneggiatura. Cosa che, di solito, non si può fare nell’animazione. Perché la sceneggiatura viene riproposta fedelmente. Il tratto veloce è venuto dopo. E ci ha permesso di lavorare su scene e inquadrature particolari senza spendere molte risorse. Ed è stato difficile trovare un equilibrio con il lavoro degli animatori? Quello che Sébastien ha provato a spiegare non è stato tanto la forma o il modello di Linda, ma il gesto da fare mentre si disegnava. Quando abbiamo selezionato i nostri animatori, abbiamo fatto dei test al buio, anonimi. E incredibilmente abbiamo trovato solo animatori ventenni, senza nemmeno saperlo. L’unico animatore più grande ha lasciato dopo un mese, perché non riusciva ad adeguarsi al tipo di lavoro che stavamo facendo. Linda e il pollo, alla fine, riesce a catturare profondamente l’anima della Francia. Questa cosa che mi dice mi fa preoccupare, perché mi fa capire quanto io sia diventata francese in questi anni . È innegabile, però, che ci siano degli elementi quasi estranei a un certa rappresentazione più contemporanea dell’Italia: la gestione degli spazi, la presenza così pregnante di manifestazioni; il tono stesso delle battute e il cinismo, anche involontario, dei vari personaggi. Sono tutte cose che sono arrivate quasi inconsciamente, per me tra la Francia e l’Italia c’è un vero e proprio corridoio. Forse sì, i francesi hanno un modo più spregiudicato, meno mediato, di parlare ai bambini. È possibile, secondo lei, fare un film come questo in Italia? Guardi, anche per il prossimo progetto abbiamo mantenuto la stessa impostazione produttiva. Forse ci sarà una maggiore partecipazione italiana, ma non è detto. Linda e il pollo, per il mercato francese, è un film piccolo, con un budget veramente minimo per l’animazione. Parliamo di circa 2 milioni e mezzo. Ecco, in Italia è molto più difficile fare investimenti simili. Perché per Linda, la protagonista, avete scelto il colore giallo? Il giallo viene da tante cose. Innanzitutto, dal colore di queste mantelline che in Francia i bambini indossano quando piove: sono sempre gialle. Indubbiamente viene dal sole. E in parte viene anche da mia figlia, le faccio vedere una cosa… . Sua figlia lo sa? Mia figlia, ora, ha 15 anni. Non credo di averglielo mai detto. O se gliel’ho detto, non mi è sembrata granché entusiasta. Linda però è nata anche dal lavoro incredibile che ha fatto la bambina che la doppia, Mélinée Leclerc, figlia di due amici registi. Buona parte di ciò che è Linda è venuto da lei. Torniamo all’importanza che gli attori hanno avuto in questo film. Gli hanno restituito una freschezza e un dinamismo unici, e hanno improvvisato e vissuto ogni singola scena.