Juliette Nothomb: “Io e Amélie, un’infanzia nell’arca di Noè"

Juliette è nata in Congo nel 1963; Amélie nel ‘66 in Belgio, anche se sulla data e il luogo esatti della sua nascita regna il mistero. Un’infanzia simbiotica, al seguito di un padre diplomatico, degna di un romanzo d'avventura. Hanno vissuto gli anni più belli in Giappone e sono approdate in tanti luoghi diversi della Terra, dalla Cina popolare alla vivace New York della metà degli anni Settanta, passando per il Canada e l'elenco continuerebbe. Entrambe cittadine del mondo, entrambe scrittrici. “Come le Brontë”, dicono quasi in coro, sorridendo. Le abbiamo incontrate durante la promozione italiana dei rispettivi libri. Sono unite da un legame profondo. Comunicano con lo sguardo. Abbiamo già scritto su queste pagine di "Psicopompo" di Amélie Nothomb, la pluripremiata scrittrice di culto che in Francia nel frattempo ha pubblicato "L’Impossible Retour" , ma stavolta è su Juliette e sulla sua personalità eclettica che ora ci vogliamo soffermare. Autrice di libri per bambini, editorialista letteraria e culinaria, Juliette Nothomb è un’intellettuale ironica e una cuoca autodidatta ma sopraffina, la bontà delle sue pietanze è quasi leggendaria. Tra le sue opere tradotte in italiano troviamo non a caso “La cucina di Amélie”, un libro di ricette romanzato e nostalgico, un omaggio alla sorella e ai suoi gusti - dolce preferito di Amèlie? Una rivisitazione al tè verde del Mont Blanc, perché in casa Nothomb, come si potrà immaginare, si mangia fusion. Juliette è tornata in libreria con un pamphlet, a metà tra memoir e saggio, altrettanto curioso e certamente non banale: “Elogio del cavallo”, edito da Voland. “Quando mi hanno proposto di scriverlo sapendo del mio amore per questi animali, mi hanno fatto un grande regalo, è come forzare un goloso a mangiare una torta” racconta a Sky TG24, utilizzando una metafora gastronomica. Le due sorelle hanno dato alle stampe quasi simultaneamente due libri che hanno inaspettatamente - dai titoli non si direbbe - molto in comune. L'amore per gli animali è il filo rosso. Le due scrittrici-sorelle, cresciute leggendo i racconti pieni di animali esotici de “Le Mille e una notte”, condividono lo stesso incanto per il creato e per la natura. Uno sguardo che hanno allenato fin da piccole grazie all’esposizione - obbligata a causa dei trasferimenti paterni - alle meraviglie del mondo. In “Psicopompo” Amélie ripercorre la propria infanzia intervallando memorie a volte luminose e altre volte dolorose con il birdwatching. Dalle finestre delle tante case in cui ha abitato, Amélie ha esercitato la capacità di riconoscere le specie e i comportamenti dei pennuti, il suo più grande svago. I due libri dialogano anche nel racconto dello shock provato quando, lasciato il Giappone, una terra che per entrambe continua a rappresentare un luogo idealizzato di felicità assoluta e mai più replicabile, arrivarono nella Cina del Grande Balzo in avanti, che era un “deserto di uccelli” per via della campagna di sterminio dei passeri, considerati portatori di malattie, e dove l’equitazione, attività prediletta da Juliette, era proibita in quanto simbolo dell’assolutismo del vecchio regime imperiale. L’esperienza dell’una si specchia nel vissuto dell’altra, con note geopolitiche che non annoiano mai e stuzzicano la curiosità, perché sono raccontate con tono mai didascalico, al contrario con la leggerezza di chi ha vissuto sulla propria pelle da un emisfero all'altro l'estrinsecarsi della Grande Storia nella propria quotidianità. Un esempio sono proprio le malefatte degli “scagnozzi loschi” di Mao, come li chiama Juliette. Casa Nothomb era una sorta di arca di Noè. “Abbiamo avuto cani, uccelli, pesci rossi, animali di tutti i tipi”, spiega Juliette. Ci confessa un rimpianto: “Non ho mai avuto un cavallo tutto mio, perché abbiamo girato molto per via del lavoro di nostro padre e non era possibile trasportarlo da un Paese all’altro. Riuscii però a farmi affidare per dei periodi dei cavalli. Quello che ha contato di più nella mia vita, è arrivato quando avevo dodici anni. Si chiamava Charlie - ci racconta - ed era un cavallo americano a chiazze scure e bianche, come le vacche. Me ne presi cura e ci gareggiai nei due anni che passammo negli Usa, poi mio padre fu mandato in Bangladesh e noi con lui. È stato come separarmi da un fratello, il mio Charlie. È stata la separazione più dura della mia vita”.