“Io, uomo che scrive romance, non sono preso sul serio, ma i sentimenti non hanno genere"

Alla fine degli anni Settanta nel mercato editoriale americano, furono pubblicati due romance di grande successo. Il primo, “Love's tender fury”, fu ristampato circa 40 volte nel giro di poco tempo. Il secondo, “Dare to love”, restò undici settimane nella classifica dei paperback bastellers del New York Times. Due romanzi scritti in prima persona che raccontavano le gesta e le passioni di un’eroina, l’indomita Mariette, giovane inglese esiliata nel Nuovo mondo dopo essere stata ingiustamente accusata di furto e venduta come schiava a un misterioso proprietario terriero. Jennifer Wilde, il nome sulla copertina, in realtà era uno pseudonimo, come accadeva del resto per la maggior parte dei romanzi rosa di quell’epoca. A cominciare dagli Harmony, le cui autrici si nascondevano sistematicamente dietro nomi fittizi. Ma Jennifer Wilde, la scrittrice il cui nome compariva in copertina, in realtà era un uomo: un quarantenne texano, veterano dell’esercito, Tom Huff. Prima di rivelare la propria identità, aspettò diversi anni. E non tanto per pudore o vergogna. La paura che il racconto sentimentale di un uomo fosse considerato meno autentico spinse diversi autori a restare in anonimato. Come Huff, molti altri scrittori uomini di romance hanno utilizzato un nom de plume. “Quando mi stavo preparando per la pubblicazione del mio primo romanzo rosa, diversi colleghi scrittori e il mio editore mi suggerirono di avere uno pseudonimo femminile . Mi è stato detto - ha denunciato recentemente l’autore americano B.W. Haggart sul suo blog - che più dell’80% per cento dei lettori di romance sono donne, e molte non avrebbero letto autori di romance maschili”. Insomma, una never ending story che per una volta inverte i rapporti di forza tra sessi. Conviene essere donne. Lo pensa anche Carlo Lanna, autore nostrano, che è in libreria con “Le strade che ho percorso” , un romance che rientra nella categoria LGBTQAI+, sempre più sulla cresta dell’onda. Negli Usa, un punto di osservazione privilegiato, le vendite di queer romance sono aumentate del 740% negli ultimi cinque anni, secondo i dati di NPD BookScan. Sei un collega giornalista, quindi il “tu” è d'obbligo. Come sei entrato nel mercato editoriale del romance? Ho sempre scritto racconti. All'inizio neanche pensavo che dare alle stampe i miei lavori fosse una possibilità. Fu una mia amica a spronarmi. I miei primi libri sono stati pubblicati da piccoli editori. Quest’ultimo, “Le strade che ho percorso”, è stato opzionato da una casa editrice più grande, Liberti, che voleva ampliare la sua collana di narrativa romance e mi ha permesso di avere una distribuzione nazionale. Cercavano un romance che ponesse all’attenzione le tematiche LGBTQIA+. Hai già pubblicato diversi libri, ma in questo sembra ci sia un maggiore investimento personale per la scelta dei luoghi. Ho ambientato a Napoli la storia, mentre per i precedenti ho scelto soprattutto l’America come scenario. Poi ho pensato: perché non scrivere della mia terra? Io sono di Caserta e oggi vivo a Modena, ma Napoli è una città che conosco bene. Ho capito che parlare di un posto vicino al mio vissuto mi offriva maggiori spunti di riflessione. Quello che colpisce è la scelta di raccontare un contesto di malavita. Lo schema sociale e lo sfondo sono fondamentali per me. In questo caso, ho parlato dell’universo mafioso. Essendo cresciuto in Campania, ho sentito spesso compagni di scuola o di università raccontare le vicende di persone imbrigliate con la Camorra. Sono cresciuto con questi racconti. Ho declinato la materia, piuttosto complessa, nel mondo del romance. Cosa ti ha spinto a fare questo salto? Nei mesi in cui mi preparavo a scrivere, si parlava molto del fenomeno di “Mare Fuori”. Eravamo bombardati dalle immagini della serie. Sicuramente mi è sembrato il momento giusto “per tornare a casa” anche per questo. Il punto è raccontare la Campania non solo dal punto di vista della malavita ma anche della speranza che fiorisce anche dove non ci si aspetterebbe. Questo piace ai lettori e anche ai campani. All'errore si può rimediare, l'errore si può correggere. Hai voluto lanciare un messaggio in particolare con il tuo libro? C'è un mondo malvagio là fuori, ma c'è sempre la possibilità di fuggire. I protagonisti sono due ragazzi, figli di clan contrapposti, che rincorrono il sogno di vivere una vita diversa da quella criminale. Il messaggio è che di Camorra non devi per forza morire. Forse è una prospettiva un po’ utopistica ma mi sono appellato alla “sospensione di incredulità” che nel romance, come è noto, è uno dei capisaldi. Napoli non è solo Camorra. Il lato oscuro forse è ancora preponderante, ma c'è la possibilità di uscire dal tunnel e io attraverso Salvatore e Raffaele ho fatto capire che, anche se sei schiacciato da dinamiche familiari e di quartiere, c’è sempre una strada alternativa. E che l’amore è una forza potentissima. I tuoi romanzi escono fuori dagli schemi dei romance di evasione pura. Questo genere forse è sottovalutato e ha un potenziale maggiore di quello che si pensa? Mi sono sempre trovato a mio agio nel raccontare storie d'amore, ma ho capito subito che non mi sarei accontentato solo di intrighi amorosi. Cerco sempre di costruire i miei libri con un doppio binario: quello della storia d'amore, che affronto con un’attenzione psicologica molto accurata, e poi una seconda dimensione che mi permette di dare spessore alla trama. La storia d’amore tra il figlio e la figlia di due clan rivali sarebbe stata già di per sé dirompente, ma immaginare una storia d'amore omosessuale lo è ancora di più. Volevo raccontare una storia d’amore tra due ragazzi in un contesto gretto e machista come quello della malavita organizzata, dove sono le stesse madri, e non solo i padri, a essere portatrici dello spirito patriarcale: crescono i figli educandoli alla necessità di trovarsi una donna, una bella ragazza, per fare dei figli e assicurare la posterità del clan. Questi ragazzi vivono una doppia vita: uscire allo scoperto non è una possibilità. Per vivere il proprio amore, si deve per forza scappare. Il risultato è un tragedia shakespeariana, stile Montecchi e Capuleti in salsa Gomorra. Hai scelto un genere in cui sei in minoranza. Quasi tutte le scrittrici di romance sono donne. Pensi sia un punto di forza l’essere l’unico o uno dei pochi in Italia? Credo di avere talento per la scrittura di romance, ma che il fatto di essere uomo sia un limite: è complicato farsi spazio alle fiere e agli eventi. Le lettrici - perché gli avventori di questi eventi sono quasi sempre donne - si fermano, si complimentano per la cover e magari sono incuriosite dalla trama, ma poi passano oltre. È come se un uomo che parla di sentimenti fosse meno credibile o addirittura incapace di esprimere certe emozioni. Questo non è vero. Non mi sento preso sul serio. Il problema è solo da parte delle lettrici? Lo stesso scetticismo consequenzialmente si ritrova anche nelle case editrici, che hanno un doppio pregiudizio nei confronti dei romance in generale e degli uomini che scrivono romance. Temono che le vendite ne risentano. E poi, detto sinceramente, non vorrei che tutti si aspettassero da me solo gay romance per via del mio orientamento sessuale e della comunità a cui appartengo. Voglio sentirmi libero di scrivere storie d’amore tra due donne, come di raccontare love story etero e così via. Questo uscire dagli schemi e dalle griglie non è ben visto dalla comunità di romancers. Il mondo del romance, inteso come community di scrittori e lettori, è meno aperto di quello che vuole far credere. Quali altri temi sensibili hai affrontato nei tuoi romance? Già in “Il colpo di fulmine non esiste” avevo provato ad affrontare la questione del precariato. Ero in un momento professionale complicato. E avevo bisogno di scrivere per esorcizzare quello che stavo vivendo. Il protagonista era un giornalista freelance sottopagato, un personaggio che raccontava molto anche di me. Ho parlato quindi non solo d’amore, ma dei problemi del mondo del lavoro di oggi e in particolare dell'instabilità di tanti giovani giornalisti. Il romance può e deve avere uno sguardo sociale. La letteratura è salvifica: non ghettizziamoci e non lasciamoci ghettizzare Hai scritto per tanti anni per Gay.it, hai denunciato spesso le discriminazioni. Che rapporto c’è tra i libri che scrivi e il tuo impegno? C’è continuità. I miei romance sono una prosecuzione del mio attivismo, perché su certi argomenti non c'è giusta attenzione o non bastano solo le inchieste. La forma “romanzo” mi permette di approfondire la questione a me più cara: l’accettazione di sé. Imparare a conoscersi e ad amarsi è l’inizio del viaggio. E le dinamiche familiari sono uno dei miei centri d’interesse: è difficile uscire allo scoperto quando non si conosce o si teme la reazione di chi è dall'altra parte. La maggior parte dei romance sono ambientati in luoghi lontani rispetto all’autore. Spesso si contravviene alla regola che si dà allo scrittore esordiente: “Parla solo di cose e luoghi che conosci”. Tornerai a raccontare di posti lontani? Questo libro è autoconclusivo sicuramente, non avrà un sequel. Credo però che continuerò a raccontare storie ambientate nella mia terra e abbandonerò per un po’ la contemporaneità stretta. Ambientare “Le strade che ho percorso” nel 2004 è stato molto stimolante. Ho scelto i primi anni 2000 perché era un mondo diverso: c’erano ancora le cabine telefoniche; si inviavano gli SMS, che adesso sembrano reperti archeologici; non c’erano i social, quindi è stato anche in un certo senso un viaggio nella mia gioventù, nei miei stessi ricordi, nelle sensazioni che ho vissuto. Questa differenza sostanziale nei mezzi di comunicazione e di tecnologia regala delle emozioni inaspettate dal punto di vista narrativo. Ho in progetto un nuovo libro. Sarà ambientato a Napoli alla fine degli anni Novanta e parlerà della difficoltà di accettarsi quando si è circondati da un ambiente ostile. Il tuo percorso di coming out è stato facile? Il mio percorso non è ancora finito e ci sono cose che bisogna affrontare ogni giorno con se stessi. Vengo da una famiglia di vecchia generazione. Ancora non capiscono e non comprendono alcune cose, ma c’è un tacito assenso. A casa tua leggono i tuoi libri? Io li porto, non so se li leggano o almeno, se lo fanno, non me lo dicono. Mia madre però lesse una novella di Natale che pubblicai qualche anno fa e ne rimase innamorata. “Saranno famosi”, dice sempre. È il suo modo di dirmi che crede in me.

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