Un bicchiere di scienza: il gusto "invisibile" del vino

“Il produttore si chiama Mario, la moglie Francesca. Hanno una figlia, Sofia. Hanno anche un cane, Orazio, è un labrador. Anzi no aspetta…un golden retriever”. Sarà capitato anche a voi di assistere sui social a video e reel col tormentone dell’assaggiatore di vino che riesce da poche gocce nel palato a risalire all’intera biografia dei produttori. Anni fa Antonio Albanese ironizzava sui riti dei sommelier: e così, grembiule e tastevin di ordinanza al collo, si lanciava in una sorta di lunga danza – impossibile non ridere - col bicchiere in mano per poi sentenziare un laconico: “è rosso!”. Un’ironia un po’ telefonata forse, attorno a un settore che ha fatto dell’assaggio e della conseguente narrazione di “odore persistente di sottobosco e sentori di pane croccante” un momento topico dell’inizio di ogni cena di qualità. In realtà, ogni volta che apriamo una bottiglia di vino, non solo quelle più costose, accediamo ad un piccolo-grande prontuario di scienza: dalla neurologia con i ricettori che attivano diverse aeree del nostro cervello alla tecnica degli enologi per arrivare a creare proprio quel gusto, alla biologia di lieviti e batteri e alla sempre minore quantità di chimica: i famosi solfiti da qualche anno indicati su ogni bottiglia. Insomma dietro ogni bicchiere c’è tanta scienza ma anche, tanta, tantissima ricerca. Ce lo conferma il professor Fulvio Mattivi, ricercatore in chimica degli alimenti e Scientific Advisor della Fondazione Mach, nata dal famosissimo Istituto Agrario di San Michele all’Adige. Prof. Mattivi quanta scienza c’è in ogni bicchiere di vino ? C’è molta scienza perché è una bevanda che ha una straordinaria complessità e diversità, cosa che non è comune per la maggior parte dei prodotti di consumo quotidiano che tendono a essere molto standardizzati per essere ripetibili. Anche il vino però ha degli standard, altrimenti come faremmo a distinguere un Barolo da un Chianti… Sì, è vero gli standard per il vino sono moltissimi ma le faccio un esempio: una fragola sa di fragola, una mela sa di mela e una mentina profuma di menta. Il vino non sa di vino. L'aggettivo vinoso esiste, ma è solo per indicare una base comune a tutte le bevande fermentate dall'uva. Ma poi il vino può avere note da frutta rossa, può avere delle note da mele. E quindi somma la complessità di tante matrici. Ecco, professore, lei parla appunto di sentori che ci sono nel vino. Di cosa si tratta? Nell'uva ci sono delle sostanze non necessariamente odorose ma che possono essere presenti come precursori che poi durante la fermentazione o l'affinamento si manifestano nella forma sensorialmente attiva. Altri composti sono indotti dalla fermentazione e qui rientrano in gioco anche i lieviti ed eventualmente i batteri. Ma come si fa a descrivere un vino? Noi abbiamo per gli aromi un vocabolario di tipo prototipale, cioè noi possiamo solo richiamare alla memoria la nostra esperienza. Abbiamo circa 400 sensori diversi, che sono in grado di riconoscere alcune molecole odorose e dobbiamo associarle a quel ricordo e a quel prodotto. Dipende dalla cultura, dalla memoria, però le sostanze sono le stesse, i nostri sensori sono gli stessi e quindi se sentiamo odore di cuoio e di cavallo è perché ci sono delle sostanze negative di solito che ricordano la stalla. Se invece sentiamo le note da pepe è perché in alcuni vini c'è esattamente la stessa spezia che dà la nota principale al pepe. Ricorda un po’ la Madeleine di Proust… Eh direi che è una definizione centrata, ma c’è una complicazione. Alcuni di questi sensori fanno parte del sistema olfattivo di tutti. Ognuno di noi per esempio sa riconoscere sostanze negative che non sono presenti normalmente nel vino, come quelle legate all’ammoniaca o alle ammine, associate al cibo in putrefazione, che l’uomo ha acquisito con l’evoluzione. Altri sensori sono unici: per esempio una persona su cinque non ha i recettori per sentire il composto della nota speziata da pepe. Per capirlo ci vuole poco: basta vedere chi mette un giro di pepe sul cibo e chi fa dieci macinate perché altrimenti non lo sente. A proposito di odori sgradevoli quando apriamo una bottiglia e sa di tappo il vino è imbevibile. Cosa è successo in quel caso? Ci sono più problemi che possono essere dati dal tappo. Il tappo di sughero è composto da materia prima naturale ed ecologica come la corteccia. Da subito però è soggetta durante la produzione a essere inquinata da dei funghi. Ci può essere una contaminazione vera e propria di una sostanza completamente diversa da quella che può formarsi nelle uve. Il tappo di sughero ha delle fessure, ha delle venature, quindi capita che una frazione non irrilevante dei tappi naturali facciano passare più aria dentro al vino di quella che sarebbe ottimale e di conseguenza consumano gli antiossidanti nel vino che si ossida e prende quel sapore un po’ dolciastro che viene definito maderizzato o marsalato. Professore, parlavamo di tanta scienza oggi dietro ogni bicchiere di vino. Ma quali sono gli errori che si possono fare e che portano a un difetto? I vini che vediamo oggi sono completamente diversi da quelli che si bevevano venti o trent'anni fa. Gli enologi in tutto il mondo hanno lottato per secoli per evitare i difetti. Fra quelli più grossi c’è la formazione di spunti acetici, quella che si chiama acidità volatile. Si tratta di note legate alla presenza di un composto che è l'acetato di etile in altre sostanze che si formano quando ci sono dei batteri acetici che lavorano. Altre note molto comuni sono quelle legate alle botti non ben sanitizzate che ospitano dei lieviti che formano dei fenoli volatili che danno queste note da stalla. Anche questo, specie nei vini rossi, è un difetto molto frequente. Però direi che questi difetti si possono trovare ormai fra i cosiddetti vini del contadino, insomma bisogna andarli un po’ a cercare dei vini che abbiano dei difetti palesi. Il fatto di non avere nessun difetto è il prerequisito per apprezzare le particolarità, le differenti caratteristiche positive. Perché il nostro sistema sensoriale apprezza delle note, dei profumi, anche diversi, purché siano tra loro coerenti. È un po’ anche come capita coi colori, quando si mescolano in maniera inappropriata si ottengono delle tonalità morte. La qualità dei vini è indubbiamente aumentata come ricordava. Quanto anche qui conta l’avanzamento tecnologico e scientifico? Negli anni ‘80 e ‘90 c'è stato un accesso alla tecnologia delle cantine italiane che si sono dotate di attrezzature. Macchinari molto efficienti per quello che riguardava la pressatura, le chiarifiche, per conservare il vino prevenendo un eccesso di ingresso di ossigeno. Questo ha portato molto rapidamente a far sparire, per esempio, quei vini che sapevano di aceto, ossidati. Sono cambiati anche gli enologi. Se facevi l’enologo trent'anni fa e ti andava a male una vasca da 200 ettolitri di vino, perdevi il lavoro. E quindi la tendenza era anche di andare giù con la mano pesante con i conservanti: “meglio il mal di testa a loro che a me” pensavano. Ora non è più possibile perché il valore va segnalato in etichetta. I controlli sono fatti in tutta la sede, anche diciamo sui disciplinari e sui protocolli commerciali. Non c'è una partita neanche di sfuso che viaggi senza avere questi dati. Però gli aspetti migliorativi sono stati anche altri, su alcuni aspetti della tecnologia. Hanno iniziato vent’anni fa gli australiani e i neozelandesi col Sauvignon Blanc prodotto con tecnica che viene detta di riduzione, quindi tenendo il vino in protezione, ma anche usando i gas inerti e quindi prevenendo con mezzi fisici il contatto con l'aria. Poi c’è la vinificazione in ambiente inerte in atmosfera di azoto invece che nell'aria, un'invenzione italiana che è presente in migliaia di aziende in tutto il mondo. E il fatto di impedire fisicamente che entri aria, conserva perfettamente il vino e previene ogni situazione senza nessun tipo di utilizzo di chimica. C'è stato poi un miglioramento notevolissimo nella parte della microbiologia con la disponibilità di un numero molto interessante di lieviti e batteri. Sono stati selezionati anche dalla Fondazione Mach, dei batteri che avevano lavorato molto bene. Lieviti che assicurano in tempi brevi il completamento della fermentazione e prevengono la formazione di alcune sostanze anomale. Ci sono lieviti che vengono sviluppati per abbassare un po’ il contenuto alcolico, per produrre acido lattico durante la fermentazione e quindi fare un acidificazione naturale durante la fermentazione. Anche questo è un aiuto per permettere di avere la freschezza dei vini che noi andiamo a cercare. Ecco, professore, in questo c'è anche il tema della selezione delle viti, cioè evitare in questo modo di utilizzare la chimica proprio diciamo sul prodotto di base, cioè sull'uva È una cosa a cui tengo molto. Io ritengo che sia un bene che anche in Europa si sia ripreso a lavorare sulla produzione di incroci tolleranti ai patogeni fungini. Noi conviviamo con un problema in Europa che ha la necessità di fare trattamenti in campagna perché abbiamo importato a fine ‘800 dagli Stati Uniti quei patogeni che erano coevoluti con le viti americane come la peronospora e il marciume nero. Fra le due guerre mondiali e nel primo dopoguerra l'arrivo della meccanizzazione e della chimica ha permesso semplicemente di fare dei trattamenti in campagna con dei fungicidi. Però questi patogeni sono evoluti nell'arco degli ultimi 50 anni e adesso richiedono sempre più trattamenti e sempre più frequenti. Una risposta della ricerca agronomica è quella di incrociare delle viti americane ed anche asiatiche e anche qualche qualche vitivinifera europea, per esempio dalla Georgia e dal Caucaso. La pressione dei patogeni, anche per questo clima molto più estremo, è diventata complicata. Ci sono annate in cui il problema arriva anche in zone del Sud Italia dove negli anni scorsi non c'era oppure in certe zone del Nord Italia in annate piovose. Su questo la Fondazione Mach, con la quale ho il piacere di collaborare, ha già organizzato per tre anni una mostra dei vini da varietà tolleranti ai patogeni, con risultati molto interessanti, quindi ogni anno ci sono più di un centinaio di etichette e si vede che c'è un miglioramento anno dopo anno. Come sempre le risposte ai problemi del futuro non sono cercando solo nel passato il vecchio vitigno dimenticato, ma sono nel lavorare sodo e cercare di utilizzare quell'ingegno e quei mezzi che oggi abbiamo a disposizione. Ecco, professore, in chiusura, mi faceva piacere parlare anche di una scoperta che ha fatto con la Fondazione Mach e cioè la presenza del Kokumi, considerato un sesto gusto, anche nel vino. Ce ne può parlare? È un cosa molto nuova di cui stiamo anticipando i primi risultati in queste settimane. Sappiamo cos’è l’umami, cioè quel gusto scoperto un secolo fa in Giappone legato essenzialmente al glutammato di sodio, e che si aggiunge a quelli che noi vengono insegnati in Europa . Ecco il kokumi viene definito come un sesto gusto, che è ancora più complicato. È dato da delle sostanze che di per sé non non hanno nessun sapore ma che hanno la capacità di alzare il volume di altre sostanze che danno appunto note umami, oppure note salate oppure acide. Stiamo scoprendo che questo sesto gusto non aggiunge cose che non conoscevamo ma dà una maggiore lunghezza e una maggiore complessità, che non era spiegata dalle sostanze finora conosciute. Cioè fondamentalmente, professore, quindi questo Kokumi è un moltiplicatore di sapore? Sì e stiamo scoprendo che c'è anche nei vini, quindi è interessante perché si tratta di vedere quali lieviti possono lavorare meglio. Per cui possiamo tirare fuori solo quello che è già presente e con l'aiuto delle biotecnologie, con l'aiuto della microbiologia, cercare di valorizzare quello che è dentro l'uva e che si può far arrivare a percepire a far apprezzare nel momento in cui si degusta il vino.

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