Il Leone d’oro alla Biennale di Venezia Cristina Caprioli: “La danza è un moto continuo”

Con la sua concezione di danza come “discorso critico in continuo movimento”, ha influenzato silenziosamente e sostanzialmente più generazioni di coreografi durante i suoi tre decenni di ricerca. Per questo, Cristina Caprioli, bresciana ma da anni residente in Svezia, ha ricevuto il Leone d’oro alla carriera nella 18esima edizione della Biennale Danza di Venezia in cui ha presentato alcune delle sue ultime opere tra cui Deadlock e Flat Haze, 9 ore di coreografia in continua trasformazione. “In contrasto con i formati normativi e le economie di scambio della danza, le basi filosofiche del suo canone controbilanciano una rigorosa ricerca concettuale con esperienze corporee e affascinanti e altamente accessibili” sottolinea il direttore della Sezione Danza della Biennale di Venezia Wayne McGregor. E ancora: “Il suo impegno per il miglioramento, l’evoluzione e lo sviluppo della nostra arte è un’ispirazione per chi vive nella danza, e dietro il suo percorso sottotraccia si celano l’eccezionale qualità e l’integrità di un processo creativo a tuttotondo”. Abbiamo incontrato Cristina Caprioli durante una pausa di Flat Haze. Partiamo dal titolo, Flat Haze, cosa significa? Prende il nome dalla nebbiolina orizzontale che rappresenta, uno strato molto leggero di nebbia, quella della mattina o della sera che non copre dunque tutta la visione. L’abbiamo creata tirando 24 chilometri di filo da pesca di formato e gradazioni diverse, a tratti sottile, a tratti più larga, un po' verde o un po' azzurrina, proprio per creare come una sfumatura della luce che taglia la visione in tre. L'idea principale è infatti quella di offrire allo spettatore un’immagine che non è completa ma che propone delle figure di danzatori che si muovono in modo molto strano, un po' stilizzato, come se fossero degli animali. Questi due strati di nebbia fittizia creano dunque una sorta di sfocamento di certe parti per cui chi guarda vede a pezzi. Se tu approdi alla danza pensando che non sia necessario vederla tutta e aggiungi con la tua immaginazione le parti che non vedi bene, secondo me la danza si trasforma in qualcosa che si ritrae nel suo background e diventa come un paesaggio di sfondo. Un’idea decisamente controcorrente… Quest’idea va contro il concetto che bisogna essere sempre illuminati, stare al centro della scena, farsi vedere. Qui è come se la danza, ritraendosi verso lo sfondo, diventasse una cosa sola con la materialità della stanza. Questo lavoro, Flat Haze, nasce sicuramente da ragioni concettuali. Volevo proporre uno spazio e un modo di assistere, di partecipare alla danza che non ti agita o ti esalta, ma ti fa quasi abbassare la temperatura per cui, nel momento in cui ti calmi, inizi a vedere dei dettagli di ciò che accade all’interno di questo spazio che altrimenti non avresti visto. Ed è lì che si entra quasi in uno stato di contemplazione, invece di guardare qualcosa con gli occhi fissi e cercare di capire la narrativa o di consumare ciò che si vede. Qui ci si lascia andare. C’è un ricordo della sua infanzia dietro questa ricostruzione della nebbia? Sì, assolutamente. Quando da bambina abitavo a Brescia c’era tantissima nebbia e ricordo questa sensazione quasi di stasi. In realtà, se si guarda con attenzione la nebbia, ci si accorge che si muove tantissimo proprio a livello di molecola e quindi questa forse è la proposta del Flat Haze: non è una “flat line”, non si è fermi, ma c’è questo andamento molto tranquillo. A proposito di questo non vedere tutto, lo spettacolo dura nove ore e lo spettatore può entrare e uscire quando vuole. Altro elemento di rottura... Lo spettacolo della danza è sempre come condizionato, predeterminato, ha una temporalità, diciamo, fissa. Lo spettatore sa a che ora inizia, quando finisce, se ci sono intervalli. La mia idea invece è che la danza è un moto continuo e ha in sé una narrativa. Se tu vedi la danza come un moto continuo, puoi prendere qualsiasi parte e quella è la danza. Cioè, non è necessariamente legata a una drammaturgia che abbia un inizio, un mezzo e una fine. E sono particolarmente felice quando la gente entra e da sola decide quanto deve esser lunga la danza che vuole vedere. È un po’ come quando si visita una galleria d’arte, chi entra decide quanto tempo vuole stare. A proposito di nebbia e di stasi, per lo meno apparente, il titolo di un altro lavoro che ha portato qui a Venezia, Deadlock, significa letteralmente stallo ma è una coreografia tutt’altro che statica in cui la danzatrice si muove seguendo quelle che sembrano delle ripetizioni in serie … È tutto uno studio sulla forza centripeta, su un movimento di spirale circolare continuo che rigenera la propria forza. Una forza che ha la capacità di decostruire e di riportare indietro tutti i detriti residui. Per comprenderlo bisogna pensare che è come quando un moto va contro un punto di stallo, di stop, un deadlock appunto, e non può più andare avanti. Allora gira su se stesso e rigenera la sua forza invece di andare solo avanti e quando compie questo movimento crea come un vuoto al centro. C’è una ricerca di movimento che nasce quindi da uno studio anche scientifico? Abbiamo lavorato con strutture molto astratte, matematiche, di velocità, di accelerazione e decelerazione. Abbiamo studiato come portare il movimento a dei punti del corpo molto precisi, non sempre ovunque. In questo moto continuo così c'è anche la vibrazione, che poi alla fine diventa un'oscillazione. Questo il lavoro scientifico, poi c’è l’arte. Se tu, ad esempio, prendi un movimento di vibrazione e lo metti sulla mano puoi pensare alle alghe marine, ai campi di grano o anche ai movimenti un po' sconnessi dei bambini appena nati. Lei ha ideato non solo la coreografia ma anche lo spazio scenico che prevede una sorta di pellicola che fa da sfondo in cui viene proiettata nella prima parte l’immagine video di un corpo che si muove, il suo, contemporaneamente alla danzatrice “dal vivo”. Il tutto tra il buio e la luce. La sensazione che si ha nel vedere Deadlock è quella di esser sospesi un po’ tra la vita e la morte… Ho creato questo lavoro in un momento della vita in cui la morte era particolarmente presente. Ci sono sicuramente delle idee di morte ma anche di virtualità, di esistenza completamente virtuale. Ci sono tante riflessioni: questo concetto del tornare e del fatto che ritornando su se stessi si crea la curva che poi porta avanti per sempre. Vale per me, che ora ho 70 anni, ma anche per questo periodo storico. Ora generalizzo ma siamo così cinici… non crediamo più in niente e non riusciamo neanche a immaginare la possibilità di un cambiamento verso il positivo. Con il cambiamento climatico e tutto quello che sta accadendo intorno a noi. È come se battessimo la testa sul muro e continuassimo a farlo invece di rimbalzare dal muro e cominciare un moto che forse ci porterà a delle fuoriuscite. Voglio dire che tenersi in moto è importantissimo e non bisogna usare la scusa di non poter andare avanti a causa di un ostacolo per smettere di muoversi, perché se tu vai e rimbalzi indietro si crea questo moto continuo che ti porta sempre più dentro e allo stesso tempo ti distribuisce sempre più fuori. E questo luogo così scuro in cui ci si ritrova in realtà sostiene sempre la luce. Parlando di forze e moto continuo… Che spinta le arriva oggi, da questo Leone d’oro appena ricevuto? Personalmente mi ha come rassicurato, mi ha fatto sentire quanto sia arrivato chiaro il valore di ciò che ho fatto e che faccio. E ricordato quanto sia importante che io vada avanti, per me e per la compagnia . E in effetti ho ancora così tanto da fare… Un’ultima cosa, il suo lavoro è sicuramente molto lontano dalla danza che definiamo accademica. Ma il suo primo incontro con la danza fu con uno spettacolo che aveva come protagonista il leggendario Rudolf Nureyev scomparso 31 anni fa. Che ricordo ha? Prima di tutto non avevo mai visto uno spettacolo così ben fatto. E lui ballava veramente in un modo quasi feroce ed era tutto così logico e incredibilmente chiaro. Ero molto piccola ma ripensandoci oggi ricordo che mi sembrò fantastico e, ripeto, molto logico. Nureyev non posava ma si muoveva. E il suo movimento era qualcosa di molto elevato e allo stesso tempo molto viscerale.

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