La scrittrice 28enne Sonia Aggio sta riscrivendo le regole del romanzo storico italiano

Sono le 13:30 di un mercoledì di piena estate. Ci colleghiamo in una videochiamata con Sonia Aggio durante la sua pausa pranzo. Lavora in due biblioteche comunali: in una la mattina, nel pomeriggio nella seconda. Dopo un mese intenso di tour come semifinalista del Premio Strega, è da poco tornata alla sua routine da bibliotecaria. “Sono circondata dai libri tutto il giorno e poi me li porto anche a casa, perché continuo a leggere e a scrivere”, racconta. In “Nella stanza dell’Imperatore”, edito da Fazi, ripercorre con rigore storico le vicende di Giovanni Zimisce che, da semplice soldato, riuscì ad ascendere al trono dell'Impero bizantino. 28 anni e una laurea in storia, Aggio ha colpito per la raffinatezza della lingua e per l’eleganza dello stile. “Non è il tipo di romanzo che ti aspetti da una ragazza della mia età e dal mercato editoriale di oggi, quindi ero molto intimorita”, ci racconta. Conoscere Aggio significa entrare in contatto con le ambizioni, le paure, le speranze di una generazione di scrittori “late millennials”, ovvero nati tra la fine degli anni Ottanta e la metà dei Novanta. Autori spesso raccontati con le categorie del “bambino prodigio” o del “caso editoriale” e che faticano a liberarsi dalla retorica della “promessa della letteratura” in un Paese un po’ paternalista, come l'Italia. Ci diamo del tu perché siamo coetanee. Pensi che gli scrittori della tua, cioè della nostra generazione, facciano fatica ad affermarsi? Io credo che ci sia una generazione di scrittori validissimi nati negli anni ‘80 e ‘90 che vengono percepiti ancora come esordienti. Faccio alcuni nomi: Zannoni che ha avuto un grande riscontro con il Campiello, Anja Boato, Valeria Gargiulo. Ho sentito un po’ di distacco rispetto agli altri scrittori allo Strega perché ero la più piccola. Con Valentina Mira , che è una ‘91, siamo state parecchio insieme: eravamo “la quota giovane”. Io in realtà mi sono sempre sentita in difetto per aver esordito relativamente tardi. “Magnificat” è uscito nel 2022, quando avevo 27 anni. Sognavo di pubblicare prima possibile e non lo ho vissuto bene il fatto di non esserci riuscita al primo colpo. Ho dovuto fare i conti con questa pressione. Lo Strega mi ha rimesso nell’ordine delle cose, mi sono sentita sollevata. Non avevo perso il treno delle occasioni e il tempo opportunità. Come hai vissuto l’esposizione e la visibilità che derivano dall’essere una semifinalista di un premio letterario così prestigioso? È stato molto straniante, perché mi sentivo diversa. Non solo per il fattore anagrafico, ma anche perché venivo da un mondo lontano dalla città. Mi percepivo, soprattutto all'inizio, come Renato Pozzetto ne “Il ragazzo di campagna”. Prima di questo tour non avevo mai preso un taxi in vita mia, è stata una prova difficile quando mi hanno detto che avrei dovuto chiamarne uno . Poi, però, è arrivata l'ora di parlare di libri e letteratura e mi sono rasserenata. Mi ha fatto piacere portare Sonia, la ragazza di Frassinelle Polesine, paesino di 1300 abitanti. Sentivo di essere in contatto con un pezzo di letteratura che è diverso da quello che conosce uno scrittore che viene da un grande centro e che magari ha collaborazioni con giornali importanti. Rappresento un mondo diverso, ma non per questo meno vero e meno importante. Sono orgogliosa di rappresentare la provincia profonda: non è Milano, né Roma, né Bologna, ma da noi si fa comunque cultura e per questo non siamo da meno. Il tuo essere bibliotecaria ti aiuta come scrittrice? Io mi sento più artigiana e proletaria rispetto ad altri scrittori. Mi rapporto con tanti lettori con esigenze diverse e un’umanità varia. E lavorando in una biblioteca comunale sono circondata da tantissimi generi: i classici, la narrativa contemporanea, quella per ragazzi, la saggistica. Ti arriva la signora che vuole leggere romanzi rosa per staccare la mente e il lettore molto forte con dei gusti raffinati che ti sfida a cercare qualcosa di nuovo e magari ti fa conoscere autori che non avresti scoperto altrimenti. In biblioteca si sono ampliate le mie vedute: sono al passo col mondo dei lettori e meno con quelli dei grandi scrittori. Trovare la felicità nella lettura è essenziale perché altrimenti smetterei di scrivere. Prima di fare la bibliotecaria sei stata una studentessa di storia. La scrittura è andata di pari passo con i tuoi studi? La mia carriera universitaria rispecchia quello che ho scritto. La storia è stata sempre la mia passione: volevo specializzarmi, e approfondirla. Inizialmente pensavo soprattutto a quella ambientale. Ero interessata al cambiamento climatico, all’impatto dell’uomo e all’evoluzione naturale del territorio. Quindi alla triennale mi sono specializzata nell'alluvione del ’51 del Polesine con la prospettiva di fare un dottorato sul tema. E il mio romanzo d’esordio “Magnificat” tratta proprio di questo. E poi cos’è successo? È successo che mi sono innamorata della storia bizantina, anche se non era nei piani. Ho abbandonato la storia ambientale e ho scelto di cambiare percorso e università. In particolare, a rapirmi è stata la storia di Giovanni Zimisce e di Niceforo Foca che poi è confluita nel romanzo. Una parte di me avrebbe voluto continuare a fare ricerca, ma mi sono scoraggiata vedendo compagni bravissimi non farcela e perire per lo stress accademico. Non volevo sottopormi a tutta quella pressione. E poi non mi sono mai sentita una storica al cento per cento. La mia capacità di ricerca e di lavoro sulle fonti si è scontrata spesso con la tendenza a distrarmi. Mi perdo le cose per strada, anche nella vita di tutti i giorni. Ho così tante cose nella testa, che mi passano di mente le più importanti. E quando si fa ricerca storica perdersi una fonte può essere un problema . Erano già dei segnali che l’anima di scrittrice fosse più forte di quella da ricercatrice? Ho sempre sognato di scrivere romanzi storici fin da bambina. Da piccola ero immersa in un mondo immaginifico, di fantasticherie incredibili. Immaginavo le vicende e le origini delle cose che mi circondavano: un palazzo strano, un cappello dalla forma originale. Ho sempre saputo che avrei voluto scrivere. Essendo stata lettrice di romanzo storico prima che scrittrice, ho cominciato a notare che molti libri non avevano uno base di studio, una bibliografia, qualcosa che garantisse l’aderenza ai fatti della trama. Nei romanzi c’è sempre fiction, ma avere una mappa che permetta di orientarsi e capire cosa sia vero e cosa inventato è importante. Questo è ciò che separa un romanzo storico da un fantasy, che è un altro genere. Per questo ho scelto di studiare storia. Cosa ti ha fatto innamorare della storia bizantina? Il fatto che sia una storia conclusa. Nel 1453 cade l’Impero di Bisanzio e a parte rimanenze e frammenti è molto difficile trovare un lascito. L’eredità viene rivendicata dall’Est Europa, dalla Russia, anche dalla Grecia, ma la verità è che non c’è un vero erede. Per questo è una storia conclusa, perfetta e irraggiungibile, perché non puoi stabilire un collegamento tra quello che è stato e quello che è oggi. Questo fattore da narratrice è entusiasmante. Mi dà gioia studiare e scrivere di qualcosa che non si conosce più e che non vive più. Come sei passata dallo studio all’idea di scriverci un libro? Ho sentito il desiderio di rianimare questa storia, che è quello che si fa quando si scrive romanzi storici. Parliamo di un periodo vasto che mi offriva tutti gli spunti più intriganti: i tradimenti, la guerra, personaggi di tutti i tipi, un bacino sterminato da cui attingere. La storia bizantina è ricca e sconosciuta. Ha un gusto esotico: la gente non si è ancora stufata di Bisanzio perché nessuno parla di Bisanzio. C’è un libro che ti ha fatto appassionare di romanzo storico? Wolf Hall di Hilary Mantel. Lo lessi quando uscì nel 2011, in piena adolescenza, ed è stata una rivoluzione perché fino a quel momento avevo letto romanzi storici o molto vecchi o scritti in uno stile che non mi piaceva e che quindi leggevo per l’argomento, ma che non mi convincevano da un punto di vista letterario. Lei invece ha vinto due Booker Prize ed è arrivata in finale anche con il terzo della saga. Con il primo libro ha dimostrato che si può scrivere un romanzo storico su una materia che sembra lontanissima costruendo una vera e propria opera letteraria, un’opera che sia bella da leggere. È uno di quei libri che rileggo una volta l’anno almeno, perché ha tantissime cose da dire. Ed è quello che vorrei fare anche io nei miei romanzi: creare un ibrido tra il romanzo di genere storico e qualcosa che sia bello anche da un punto di vista formale. Se ci riesco, è tutto da vedere. De “La stanze dell’imperatore” colpisce in prima battuta il lirismo che rimane costante. Che tipo di lavoro hai fatto su questo fronte? La scrittura per me è stata un elemento portante, perché io vedevo una grande differenza tra romanzo storico e letterario. In uno prevaleva la trama, l’intreccio avventuroso. Sull'altro fronte mi trovavo a leggere romanzi molto belli dal punto vista dello stile, ma carenti dal punto di vista del contenuto. Hilary Mantel mi ha convinto che fosse possibile tenere le due cose insieme e ambire a scrivere un romanzo storico che non fosse solo “cappa e spada”. Volevo che lo stile rispecchiasse l’essenza dell’Impero bizantino, un regno molto raffinato - e non arzigogolato e criptico come di solito si intende con l’aggettivo “bizantino”. Ho lavorato per trovare la quadra di un'eleganza che non appesantisse e che non fosse respingente. Qual è il segreto? Quando scrivo penso agli utenti della mia biblioteca che sono tanto diversi tra loro. Ci sono i lettori forti e aperti a qualsiasi cosa e poi quelli che cercano lo svago, l’evasione. Volevo proporre un romanzo che richiamasse il lettore che normalmente è spaventato dal romanzo storico. Anche gli utenti della mia biblioteca che rifuggono il genere, perché ritenuto “noioso”, hanno letto il mio libro. Erano sicuramente mossi dalla curiosità dettata dal fatto che la loro bibliotecaria di fiducia fosse l’autrice, ma pare che io li abbia davvero convinti. Avere dei feedback positivi da questi lettori meno accaniti e meno “impegnati” è stato il vero premio. Non ti sei solo cimentata con un genere complesso e una storia difficile come quella bizantina, ma anche con un punto di vista maschile. Gli scrittori giovani sono più “fluidi”? Sono stata fin da subito tranquilla sul fattore maschile, più che su quello bizantino. Io credo che ci sia un motivo generazionale, perché forse ho ignorato tutta quella serie di paletti che hanno gli scrittori più grandi. Il primo di questi paletti è rappresentato dall’idea che non si possa esordire scrivendo libri che raccontano cose che non si conoscono per esperienza diretta. “Non parlare di persone, luoghi, tempi che siano lontani da quello che vivi” è la regola generale e il consiglio che i più anziani danno agli scrittori in erba. Avevo interiorizzato questi schemi mentali. Il genere che avevo scelto però mi imponeva di fare quel salto nel vuoto: dopotutto scrivo romanzi storici. Per me è stata una conseguenza e ho accettato questa sfida e ci ho messo anche una buona dose d’incoscienza. E le donne? Le donne sono poche per ragioni storiche e di accuratezza. Non volevo forzare la mano facendo della fantascienza e allontanandomi dalla verità storica. Però tutti i personaggi femminili del libro sono portatori della sfera mistica sentimentale. Racchiudono la spiritualità e l’allegoria. A proposito di paletti e di millennial. Nel tuo profilo Instagram hai spesso utilizzato l’hashtag dell’#alopeciaawarenessmonth. Ti va di parlarne? Soffro di alopecia da quando avevo undici anni. Non sono rimasta calva al primo attacco di alopecia, ma la prima insorgenza mi ha causato grossi problemi, perché non ero ancora abbastanza matura da capire cosa mi stesse succedendo. Allo stesso tempo mi sono sempre sentita fortunata perché non ho mai avuto tutto questo grande interesse per il mio aspetto fisico e per la mia femminilità. Quando è tornata l’alopecia, che è una malattia autoimmune scatenata dallo stress, ero all'università: evidentemente ho vissuto quel periodo con un’ansia che non mi accorgevo di provare e il mio corpo si è ribellato da solo essenzialmente. Mi sono dovuta rasare anche per motivi estetici perché sembravo Gollum . Affronti con ironia il tema dell’alopecia. Scherzo molto sulla calvizie. Scatena una comicità involontaria incredibile. Mi diverte in modo maligno fare battute su questo e vedere la reazione interdetta della gente. Vivo con molta serenità l’alopecia. Quando mi fissano mi ricordo di essere calva. Ho scelto di non mettere la parrucca perché, come ho anticipato, sono distratta, mi perdo le cose. Figuriamoci se una come me potrebbe star dietro alla parrucca o al make-up delle sopracciglia.