Il volto privato dello Studio Ghibli, l'eredità di Isao Takahata al cinema moderno

Ci sono sempre stati due Isao Takahata. Uno pubblico, raccontato continuamente da Hayao Miyazaki e visto come una via di mezzo tra il rivale di una vita intera e il grande maestro. E l’altro privato, accorto, estremamente riservato e curioso. Più volte, questi due Takahata hanno finito per incontrarsi e per sovrapporsi. Ma alla fine ognuno di noi ha una sua idea del regista giapponese. C’è chi ha sempre pensato a Takahata come all’autore di Una tomba per le lucciole, e non c’è niente di male in questo. E c’è chi, poi, rileggendo la sua biografia, ha capito quanto fosse importante per Takahata non fermarsi alla superficie delle cose ma andare a fondo, in profondità, scandagliando, analizzando e, se necessario, dissezionando. Il prozio che vediamo ne Il ragazzo e l’airone è, in teoria, una rappresentazione di Takahata : l’uomo che sa, che appartiene a un’altra generazione, che ha un’idea di come andare avanti ma che decide, perché stanco e vecchio, di lasciare il testimone alle nuove generazioni. Quando era giovane, Takahata leggeva poesia e studiava letteratura francese all’università. Era, in tutto e per tutto, un giapponese atipico. E questa sua unicità l’ha contraddistinto fino alla fine. Aveva deciso di fare il regista d’animazione perché aveva intuito la portata e la profondità di questo linguaggio. Aveva capito, più e meglio di altri suoi colleghi, quali e quante possibilità si celassero nell’animazione. Lontano dal canone Disney È stato uno dei primi ad abbandonare il riferimento della scuola disneyana, con le sue influenze, e ad abbracciare quella francese: più adulta, più consapevole, meno infantile. Takahata sapeva che il suo pubblico non doveva essere per forza composto da bambini o da pre-adolscenti; sapeva che una storia, se vale la pena di essere vista, può parlare a chiunque. Dopo la parentesi in televisione, alla TOEI, e il primo incontro con Miyazaki, Takahata ha lavorato prima come produttore e poi è tornato ai suoi racconti. Una tomba per le lucciole, Pioggia di ricordi, Pom Poko, I miei vicini Yamada e La storia della Principessa Splendente sono cinque film profondamente diversi, eppure conservano la stessa visione e la stessa idea di cinema. Rispetto ad Hayao Miyazaki, con cui ha fondato lo Studio Ghibli, Takahata ha intrapreso un percorso quasi inverso: è partito dall’estremo realismo di Una tomba per le lucciole e si è mosso a ritroso, fino al fantastico de La storia della Principessa Splendente. Nel corso degli anni, ha chiesto ai suoi animatori e ai suoi designer di semplificare il tratto e i movimenti, di rendere tutto essenziale e immediato, come un vecchio dipinto giapponese dell’epoca Heian. Tempi lunghi Si è preso il tempo di cui aveva bisogno prima di ogni film, e anche se Miyazaki ha cominciato a criticarlo duramente per la sua lentezza non ha mai avuto fretta. Takahata sapeva, e sapeva intimamente, nel profondo della sua coscienza, che cosa stava facendo. Non ha mai smesso di studiare il linguaggio dell’animazione e di parlarne. Con Pioggia di ricordi, fu uno dei primi a cercare di coinvolgere spettatori adulti, tra i trenta e i quarant’anni. Come in Una tomba per le lucciole, anche in questo film si avverte un bisogno di realismo. Ma è un realismo utile per riflettere sulla società giapponese e sulle sue contraddizioni. Raccontare la storia di una donna di quasi trent’anni, impiegata a Tokyo, innamorata della vita di campagna e tormentata dalla sua infanzia è un modo per infilarsi tra le pieghe del tempo, per esplorare le assurdità del Giappone post-boom economico e dare finalmente spazio a personaggi più maturi e tridimensionali. Pure in Pom Poko resiste questo realismo. Ci troviamo davanti a un racconto più fantastico, che sfrutta il folklore giapponese. Nel corso del racconto, però, c’è una rappresentazione fedele e attenta degli animali e del mondo in cui vivono gli uomini. Ancora una volta, poi, torna una critica alla contemporaneità, con la distruzione dei boschi e delle montagne per favorire la costruzione dell’ennesimo centro urbano. Takahata sapeva, in quanto uomo nato durante gli anni Trenta, com’era il Giappone. E soprattutto conosceva il modo in cui si era velocemente trasformato, abbandonando la tradizione e abbracciando un modernismo più occidentale. Un tratto al servizio del racconto Per i suoi film, voleva che venissero registrati prima i dialoghi. Le animazioni arrivavano dopo, proprio per cogliere appieno i movimenti e le espressioni degli attori. Pensiamo per un momento al plasticismo dei volti in Pioggia di ricordi: sentiamo le voci impastate, cariche di tensione, ponderanti, inspessite dai mugugni, e poi vediamo queste facce piene, perplesse, che non stanno ferme nemmeno per un secondo. Con I miei vicini Yamada Takahata è stato in grado di raggiungere una sintesi estrema tra racconto e tratto. Dopo aver parlato lungamente del conflitto tra uomo e natura, ha preferito concentrarsi sulla vita quotidiana, quella fatta di piccole cose e abitudini. Mettendo in scena la storia di una famiglia giapponese, ha spostato l’attenzione dal mondo esterno all’universo interiore, dal conflitto più grande e macroscopico a quello più intimo e ugualmente importante. Gli Yamada diventano un simbolo: il padre, la madre, i due figli e la nonna. E la loro storia diventa un trattato sull’affetto e sulla convinvenza. Dal punto di vista artistico, I miei vicini Yamada cerca volutamente un disegno più essenziale e sporco. E in questo modo viene permesso all’immaginazione – intesa sia come tema che come linguaggio – di farsi avanti e di prendere il sopravvento. C’è un dinamismo diverso e più immediato. E questo stesso dinamismo finisce per trascinarsi fino a La storia della Principessa Splendente, l’ultimo film diretto da Isao Takahata e uscito al cinema quasi quattordici anni dopo. La storia della Principessa Splendente e l'eredità di Isao Takahata Takahata non sapeva di essere al lavoro sulla sua opera finale. Per molto tempo, dopo I miei vicini Yamada, non aveva la benché minima idea di che cosa fare. Ne La storia della Principessa Splendente torna il conflitto tra società e natura, tra uomini e spiriti, tra purezza d’intenti e animi carichi di contraddizioni. Torna il realismo della vita quotidiana, con una ricostruzione attenta del Giappone del passato, e torna pure il fantastico più epico, con riferimenti piuttosto evidenti alla tradizione. In alcuni momenti, La storia della Principessa Splendente ricorda vecchie illustrazioni e incisioni, con capelli filiformi, visi tondeggianti e occhi allungati. C’è l’emancipazione dell’individuo, in questo film. E, più nello specifico, c’è l’emancipazione femminile. Come in Pioggia di ricordi, anche qui la protagonista vuole tornare alla sua dimensione, abbracciare un’idea completamente diversa, rispetto a quella che ha suo padre, di ricchezza e fortuna. Rimpiange le giornate passate in montagna, tra i boschi di bambù, e rimpiange una vita che, semplicemente, non ha mai avuto avuto la possibilità di vivere. Isao Takahata ha influenzato profondamente non solo l’animazione giapponese ma il cinema di tutto il mondo. E l’ha fatto senza scendere a compromessi, senza negarsi e senza dimenticare il suo passato. Un regista poeta Definirlo poeta può sembrare una banalizzazione retorica. Eppure è alla poesia che Takahata si è spesso rivolto. Perché nella poesia, proprio come nell’animazione, la sintesi tra i vari elementi gioca un ruolo fondamentale e asciugare – le parole, le intenzioni, la punteggiatura – è un atto più che necessario: è vitale. I film di Takahata sono oggi dei punti di riferimento imprescindibili. La storia della Principessa Splendente, uscito al cinema per la prima volta più di dieci anni fa, è quasi ultra-moderno, capace sia di anticipare quello che sarà e che deve ancora venire sia di ricordare, e dunque preservare, ciò che è stato.