Scrivere un romanzo sul Covid? E' troppo presto. Il blocco dello scrittore? Non l'ho mai avuto. Cosa la ispira? Le storie vere. La scrittrice Helena Janeczek , premio Strega 2018, si racconta
Vive dal 1983 in Italia, Helena Janeczek, Premio Strega nel 2018 per il romanzo – edito da Guanda – "La ragazza con la Leika". A novembre l’abbiamo incontrata, ospite degli Eventi letterari del Monte Verità, che avevano come tema “Un’altra vita”.
Stiamo vivendo un'altra vita, difficile tornare a prima del Covid
Siamo al punto di dover vivere un’altra vita, rispetto a quella che conducevamo fino a prima della Pandemia?
In effetti stiamo vivendo un’altra vita. La nostra speranza rimandata di anno in anno, di autunno in autunno, di tornare alla vita di prima è già la terza volta che non si sta realizzando; siamo dentro questa vita diversa e ogni anno questa vita diventa più faticosa, lacerante, divisiva. Un luogo come questo (il Monte Verità), dove hanno provato a vivere un’altra vita a partire dalla fine del XIX secolo, forse è il luogo adatto per chiedersi come dovrebbe essere quest’altra vita. Sono i bisnonni di tutti noi quelli che qui hanno provato a fare questi modelli di vita alternativa, a contatto con la Natura. Queste richieste che sono così impellenti, anche guardando al cambiamento climatico, queste domande che già si facevano alla fine del 1800, il chiedersi qual è il costo della modernità accelerata, cosa ci avrebbe portato via, che prezzo avrebbe avuto, questo dobbiamo chiedercelo con molta forza. Questo è forse il luogo giusto dove pensare di potersi riconnettere alla storia del passato per guardare al futuro.
Raccontare storie vere mi costringe a prestare più attenzione
Immaginiamo, da lettori, che uno scrittore abbia il grande privilegio di poter entrare in altre vite, di poterle vivere: è così?
Non è una cosa che necessariamente tutti gli scrittori fanno. Ci sono scrittori che sostanzialmente raccontano quasi sempre la stessa storia, scrittori che usano sempre la stessa voce. Per certi aspetti, forse, vale anche per me, però io ho sempre avuto anche grande curiosità di pensare che la scrittura è un modo per confrontarsi con gli altri come altri. Una delle ragioni per cui mi piace lavorare sulle storie vere, è che è come se mi si costringesse a conoscerle, perché sono veramente esistite e ciò mi porta ad avere un’attenzione maggiore a quello che sono state veramente, come se uno volesse veramente conoscerle e poi cercare di restituirle nel loro essere figure che rimandano a una gamma di persone diverse da te. Quando posso mi piace disegnare delle possibilità di vite diverse.
La figura di Gerda Taro irradiava energia, mi accompagnava
Quando ha scritto “La ragazza con la Leika”, sapeva che stava scrivendo un libro così denso di vita, così pieno di energia, così bello?
Su quel libro ho lavorato tantissimo. La scrittura a volte viene bene, altre si fa fatica; lì mi sono imbarcata in una progettualità con tre voci che sono voci in terza persona, ma molto dentro allo sguardo, alla testa dei tre personaggi narratori. Dopo essermi imbarcata mi sono resa conto che era abbastanza complicato. Posso dire che erano per me anni non molto facili e sentivo di tanto in tanto questo senso di energia e gioia rifranta dal passato, dall’oltretomba; perché sappiamo sin dall’inizio del romanzo, che Gerda Taro è morta così giovane; la sentivo anche io e mi accompagnava, mi faceva compagnia, irradiava energia.
La pandemia meriterebbe un romanzo, ma è troppo presto
La pandemia meriterebbe un romanzo?
Certo che lo merita, ma è difficile. Non è che abbiamo tutta questa voglia di leggere i diari del Covid di qualcuno. Io ho un primo racconto che sostanzialmente ha per protagonista una ragazza italiana che sta a Londra durante la prima ondata, nel momento in cui lì comincia una brutta situazione, mentre la famiglia è in lockdown in Italia. Questa situazione fa da cornice a un racconto che mette al centro le relazioni, la fine della sua relazione col fidanzato; la famiglia, il papà, da dove viene, cosa fa. Credo che sullo sfondo il Covid lo troveremo tanto, ma farlo diventare proprio il centro della narrazione diventa molto complicato. Trovo che in questo momento ambientare delle storie nell’altro ieri è complicato, perché siamo dentro a una cosa così grande che magari è più facile scriverci su un saggio, delle riflessioni, una qualche elaborazione di tipo teoretico. Abbiamo la sensazione di essere su una zattera, in un mare che continua ad andare, non si riesce a stare fermi, a comprendere dove si va veramente, non abbiamo prospettiva e campo, è ancora difficile. Pensiamo all’11 settembre, che sembrava una cosa enorme, ma rispetto a questa cosa che sta coinvolgendo tutto il mondo non è così gigantesca: ci sono voluti decenni prima che uscissero dei libri in qualche modo significativi sull'11 settembre.
La diversità dell'Italia è la sua bellezza
Lei conosce bene l’Italia, vive qui da molti anni e arriva da un’altra parte d’Europa. In questi decenni trova che l’Italia sia cambiata, che sia peggiorata?
E’ un po’ più complicato di così. Io vivo a Milano, in Lombardia. Quando mi sono trasferita qui, nel 1983, arrivando da Monaco di Baviera, vedevo Milano che era un posto assolutamente all’avanguardia, la capitale della Moda, del Design. Negli anni prima dell’Expo Milano andava bene, ma il resto vedevi come si stava culturalmente e materialmente impoverendo rispetto a ciò che accadeva al di là delle Alpi. La terribile stagnazione che ha vissuto questo Paese, l’impoverimento reale che si vede anche nelle zone più ricche e industrializzate, è ovvio che non aiuta a essere più felici e sorridenti. Ci sono cose spiacevoli anche sotto il profilo politico. Tendenzialmente penso che a livello di vita di tutti i giorni l’Italia rimanga un Paese piacevole e non mi riferisco ai luoghi per turisti, io vivo a Gallarate, non a Taormina o nel Chianti, che sono posti ameni. E’ un Paese contraddittorio, ma nonostante tutto, nonostante gli anni trascorsi dall’Unità d’Italia, è un Paese con delle diversità interne molto grandi, che fanno anche la bellezza dell’Italia, il suo interesse.
Il mio lavoro è immaginato a misura d'uomo
E’ più difficile essere una scrittrice?
Abbiamo due tipi di problemi. Il primo è basilare: il lavoro nostro viene immaginato a misura d’uomo e a misura d’uomo di una volta. L’uomo si siede alla sua scrivania e nel silenzio, nel rispetto di tutti quanti, si mette a scrivere. Oggi non è più così nemmeno per tanti colleghi uomini, ma per le donne tendenzialmente non è mai così e per le donne che hanno figli non è assolutamente così. Io mi metto i tappi nelle orecchie per scrivere, a volte. Non ho mai avuto il blocco dello scrittore, perché quando mio figlio era piccolo, per esempio, non appena si addormentava correvo a scrivere. La cosa che più ami fare e fare per te stessa, trovi il modo di farla anche nelle condizioni meno propizie. Il punto non è essere pubblicate, essere lette, si sa che le lettrici sono più dei lettori e sono le donne che tengono in piedi la filiera dei libri: leggono di tutto, anche i libri di genere “maschile”.
Per le scrittrici ci sono forme di pregiudizio
Quando poi si arriva al riconoscimento critico ci sono delle forme di pregiudizio introiettate. Si dice un grande scrittore, una brava scrittrice. L’Italia non è esattamente un Paese per donne. Vinsi il premio Strega dopo 15 anni che non lo vinceva una donna. Dopo di me ci sono state tante donne in cinquina, tante vincitrici del premio Campiello, ma c’è ancora tanto da fare. Noi donne siamo iper perfezioniste, abbiamo delle forme di insicurezza, ma ci siamo messe in moto.