Il gioco dell'oca del Pil italiano: dopo 17 anni torna al punto di partenza

Lentamente, ma ci stiamo arrivando. L’Istat ha stimato che il Pil italiano nel secondo trimestre di quest’anno è stato di 450,9 miliardi. Se tutto va bene nel primo trimestre del 2025 il Pil sarà salito a 454,3 miliardi e potremo festeggiare. Cosa? Avremo superato, per la prima volta, il livello massimo del Pil nel nostro paese, raggiunto nel primo trimestre del 2008. Diciassette anni per tornare dove eravamo. Non proprio esaltante come gioco dell’oca. L’andamento del Pil italiano negli ultimi diciassette anni, col suo saliscendi ma senza una tendenza alla crescita, è del tutto anomalo per un'economia avanzata e anche per la nostra stessa economia. Nel dopoguerra, a parte qualche momento di recessione, la tendenza alla crescita era stata continua. Cosa ha causato l’anomalia degli ultimi diciassette anni? Due risposte sono possibili. Inadatti alla globalizzazione La prima è strutturale. L’economia italiana non è stata in grado di adattarsi al cambiare del mondo, compresa la sua globalizzazione. Eravamo troppo specializzati in prodotti poco tecnologici e abbiamo subito, più di altri, la concorrenza dei paesi emergenti. Problemi preesistenti, che potevamo sostenere in un mondo meno competitivo sono diventati insopportabili in un mondo più competitivo, frenando innovazione, investimenti e crescita della produttività. Su quest’ultima avrebbe pesato anche l’invecchiamento della popolazione: paesi che invecchiano più degli altri hanno più difficoltà a innovare. Reazioni sbagliate all'euro La seconda risposta è macroeconomica. L’Italia si è adattata male all’euro, non perché fosse inevitabile , ma per la cattiva gestione delle politiche macroeconomiche dopo l’addio alla lira. Quando condividi la stessa moneta, non ti puoi permettere di avere un tasso di inflazione più alto di quello dei paesi partner, perché non puoi più compensare il differenziale d’inflazione svalutando. Le politiche economiche, in particolare quelle di bilancio, devono allora essere orientate a evitare un surriscaldamento dell’economia che causi una maggiore inflazione. Invece, entriamo nell’euro, i tassi di interesse scendono, il che già di per sé tende a surriscaldare l’economia e noi, invece di stringere la politica di bilancio, facciamo il contrario: dalla fine degli anni ’90 alla metà degli anni 2000 la spesa pubblica accelera e l’avanzo primario cala dal 4-5% del Pil a zero nel giro di pochi anni. Risultato: l’inflazione resta troppo alta, le nostre esportazioni smettono di crescere, i conti con l’estero vanno in rosso e il debito pubblico non scende abbastanza. A fine degli anni 2000 ci troviamo con un deficit con l’estero e col secondo debito pubblico nell’area dell’euro. Non deve allora sorprendere la fuga di capitali dall’Italia, culminata con l’attacco speculativo del 2011: un Paese che aveva vissuto male l’entrata nell’euro poteva essere tentato dall’uscire e non è un caso che in quegli anni l’area no-euro emerga prepotentemente. In questa visione, la bassa crescita della produttività sarebbe spiegata dall’instabilità macroeconomica: perché investire in un paese a rischio di crisi? L'inflazione migliora ma il debito pubblico è ancora troppo alto Queste due interpretazioni non sono alternative: entrambi i meccanismi possono aver contribuito a quello che è successo. Guardando al futuro, la domanda che ci dobbiamo porre è se abbiamo risolto i problemi che ci hanno afflitto negli ultimi due decenni. La mia risposta è: solo in parte. Dal punto di vista macroeconomico, il problema dello squilibrio esterno è stato superato: l’inflazione nel secondo decennio dell’euro è stata più bassa che in Germania, abbiamo recuperato competitività, le esportazioni hanno ripreso a crescere e abbiamo un surplus negli scambi con l’estero. Resta il problema del debito pubblico, ancora il secondo più alto in Europa, anzi il primo più alto se guardiamo al debito verso i mercati finanziari. Dal punto di vista strutturale, qualche progresso c’è stato: la giustizia è un po’ più rapida, l’evasione fiscale si è ridotta, almeno fino al 2022, e, per quanto la corruzione sia ancora diffusa, casi tipo Enimont non sono più emersi. Ma abbiamo ancora un divario in queste aree e gli altri problemi restano, compreso la demografia sfavorevole. Il PNRR non sembra per ora aver fatto abbastanza per cambiare le cose. Conclusione: se non affrontiamo del tutto questi problemi, dopo il superamento del picco del Pil che ci possiamo aspettare che avvenga nei prossimi tre trimestri, non andremo molto lontano. Certo, in assenza di shock esterni, potremmo comunque crescere, ma resteremmo vulnerabili e torneremmo in crisi al primo scossone nell’economia globale, a meno di contare sulla buona volontà degli altri Paesi europei . E non possiamo contare sempre su tale buona volontà.

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