Combattere le mutilazioni genitali femminili con l'informazione: la sfida di Safia

Cronaca
Giulia Mengolini

Giulia Mengolini

Una pratica brutale, ancora oggi subita da 200 milioni di bambine e ragazze nel mondo. L'incidenza più alta riguarda 30 Paesi africani, ma l'Europa non è immune. Safia Moalin, mediatrice culturale somala, lavora al centro SaMiFo a Roma dove aiuta le donne che hanno subito MGF: "Molte di loro non sanno che è una violazione dei loro diritti. Formare queste donne permetterà di salvare le loro bambine"

Emorragie, infezioni pelviche e del sistema riproduttivo, setticemia, ulcere genitali, dolore cronico, problemi urinari, diminuzione del piacere sessuale, infertilità, maggiore probabilità di complicanze durante il parto. Oltre a conseguenze psicologiche post-traumatiche da stress. Sono alcune delle gravi conseguenze sulla salute delle donne dovute alle mutilazioni genitali femminili. Una pratica subita da 200 milioni di donne e bambine nel mondo secondo le Nazioni Unite: di queste, 44 milioni sono minori di 14 anni. Le MGF sono procedure che comportano l’incisione o l’asportazione parziale o totale dei genitali esterni femminili, per motivi non terapeutici. Una violazione a tutti gli effetti dei diritti delle donne che continua a essere praticata in molte parti del mondo: principalmente in circa 30 Paesi dell’Africa subsahariana, dall’Egitto al Senegal, ma anche in diversi Paesi del Medio Oriente (Yemen e Kurdistan iracheno), del Sud- Est asiatico (Malesia, Indonesia) e in alcune comunità in Sud America, India e Pakistan. Sono dieci i Paesi africani con la maggiore incidenza: in testa c’è la Somalia, con un tasso pari al 98%. Seguono Guinea, 97%; Gibuti, 93%; Sierra Leone, 90%; Mali, 89%; Egitto, 87%; Sudan, 87%; Eritrea, 83%; Burkina Faso, 76%; Gambia, 75%.

I dati in Europa e in Italia

E in Europa? Il Vecchio continente non è immune da questa pratica: sono 600 mila le donne e le ragazze che hanno subito MGF, con un tasso maggiore in Francia, Italia, Regno Unito, Germania, Svezia.
In Italia l'indagine più recente, realizzata dall'Università Bicocca per il Dipartimento Pari Opportunità nel 2019,  a gennaio 2018 rivelava la presenza di 87mila e 600 donne escisse, di cui 7.600 minorenni. Le analisi condotte nello stesso anno da EIGE-European Institute for Gender Equality sulla prevalenza del fenomeno negli Stati europei stimano che in Italia dal 15 al 24% delle ragazze siano a rischio di MGF su una popolazione di 76.040 ragazze tra 0 e 18 anni. Praticate su bambine e ragazze fino ai 18 anni, le MGF sono una forma di abuso su minori, oltre a una forma di violenza contro le donne e una violazione dei diritti umani. Il 6 febbraio è la Giornata Internazionale della lotta alle mutilazioni genitali femminili.

A woman holds a razor blade in Burkina Faso.
1347036191 - ©Getty

Il lavoro di Safia Moalin, mediatrice culturale somala, contro le MGF

Una lotta volta alla tutela della salute delle bambine portata avanti anche da Amref, organizzazione nata in Africa e operativa anche in Italia per garantire la salute alle comunità più fragili. Una rete internazionale attiva in 35 Paesi africani con oltre 130 progetti di promozione della salute. Nel contesto italiano, dove è attiva dal 1987, l’impegno dell’organizzazione si concentra anche sul rafforzamento prevenzione e contrasto alle MGF attraverso la formazione e il lavoro multidisciplinare ed interculturale degli operatori dei servizi sanitari, sociali, educativi e dell’accoglienza.
Amref lavora in collaborazione con diversi servizi dei territori di Roma, Milano, Padova, Torino. Tra questi nella Capitale c’è il centro SaMiFo, struttura sanitaria a valenza regionale per l’assistenza e la cura di richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale. Dal 2006 rappresenta una realtà di collaborazione tra medici e operatori sanitari del servizio pubblico e operatori e mediatori specializzati nell’ascolto e nell’accoglienza dei migranti, oltre a un presidio a garanzia del diritto alla salute. Figure cruciali sono i mediatori, dei “ponti” simbolici con questi servizi, perché permettono di promuovere un approccio interculturale nel lavoro di prevenzione e contrasto alle MGF. Tra loro c’è Safia Moalin, mediatrice interculturale somala: vive in Italia da oltre 30 anni e ha alle spalle un’esperienza ventennale in tema di salute delle donne richiedenti asilo. Lavora con donne somale, che hanno subito MGF. Con loro si occupa di promozione della salute, lavoro di consapevolezza dei diritti sui propri corpi e svolge un ruolo di accompagnamento delle pazienti, oltre a essere coinvolta nelle formazioni agli operatori sanitari per rafforzare la sensibilità culturale. Le persone che si rivolgono a centri come il SaMiFo presentano spesso problematiche che vanno dalle patologie fisiche, sofferenze psichiche legate alle esperienze traumatiche passate, al viaggio e alla precarietà delle condizioni di vita in Italia. Per questo la figura di mediatrice culturale è necessaria: “Va oltre la comprensione della lingua, rappresenta un ponte tra culture”, spiega Safia a Sky TG24, ricordando che il primo progetto a cui ha lavorato come mediatrice riguardava la pratica delle mutilazioni genitali. “Un tema molto delicato: per questo si inizia facendo formazione alle donne, parlando in generale della loro salute prima di sfiorare l’argomento”.

Incontro centro Samifo
Al centro, Safia Moalin. Foto di Giulio Paletta per Amref

Il ruolo di Safia è anche quello di accompagnarle in ospedale e aiutarle a comunicare con i medici. Ma prima è cruciale instaurare un rapporto di fiducia solido con loro, spiega, che richiede tempo. Spesso le donne somale con cui lavora al SaMiFo incontrano medici italiani che non hanno alcuna esperienza in merito, e possono non essere in grado di riconoscere cosa abbiano subito. “A volte le visitano e chiedono: ‘Cosa ti è successo? Ti hanno bruciata?’, e chiamano altri medici perché anche loro vedano. Questo le fa sentire umiliate, rende le cose ancora più difficili”, spiega, perché parlarne è doloroso. Dopo anni di lavoro sul tema, racconta, quello che ancora la colpisce è che donne diverse, dalle età e dalle storie diverse le dicano tutte la stessa frase: “Non dimenticherò mai quel giorno”. Per qualcuna è arrivato a cinque anni, per altre a dieci, per altre ancora prima del matrimonio. Alcune quando riescono a parlarne piangono, racconta Safia. Altre faticano a dormire.
“Ricordo la prima volta che sentii parlare nel mio Paese di mutilazioni genitali femminili", racconta Safia: "Sentii alcune donne discutere di una bambina che era morta a otto anni in seguito a un’emorragia dovuta alla pratica. Mi convinsi che tutte saremmo morte”.

Tradizionalmente il rito della mutilazione segna a tutti gli effetti il passaggio delle bambine all'età adulta: una volta circoncise le ragazze abbandonano gli studi e sono costrette al matrimonio da giovanissime."Le donne non sanno che è un modo, non consapevole, per punirle", spiega la mediatrice. "Si crede anche, erroneamente, che le MGF garantiscano fedeltà totale nei confronti del marito. C’è la convinzione che la donna mutilata non possa mai scegliere un altro uomo".
Tuttavia la radice culturale delle MGF è così profonda che spesso le donne che ne sono vittime faticano a riconoscere quello che sono: violazioni dei loro diritti. “Per molte è una pratica normale, “si è sempre fatto così”. Fare la mutilatrice è un lavoro come un altro: si fa per soldi, come qualsiasi professione. “Quando arrivano in Italia spesso scoprono che da noi non succede, che non si sottopongono alle MGF tutte le donne del mondo come invece credono”, racconta la mediatrice. Che siano consapevoli o no, quello che queste donne sono costrette a portare con sé, a volte per tutta la vita, sono i traumi psicologici e i danni fisici che le MGF provocano: dalle infezioni, al dolore cronico durante i rapporti sessuali alla difficoltà estrema e sofferenza nell’urinare. Alcune di loro che si sottopongono alla de-infibulazione, “devono imparare da adulte a fare pipì in modo normale, ed è il medico a spiegarglielo. Prima era così doloroso che usciva soltanto qualche goccia. Non conoscono il rumore della pipì”.


Capita ancora oggi che donne somale che incontra Safia chiedano ai medici di sottoporre le proprie figlie alla pratica. “Se non vengono informate della gravità della pratica e dei rischi che comporta non potranno disincentivarla per prime”. Il medico, se è preparato rispetto al tema, spiega loro che in Italia invece non avviene, che quella bambina non avrà bisogno di essere mutilata. “L’unico strumento efficace per contrastare le MGF è culturale”, spiega la mediatrice: “Dobbiamo formare i medici, i pediatri, gli insegnanti: le figure a cui si rivolgono queste donne. E parallelamente lavorare con loro, informarle sulla loro salute e sui loro diritti”. Per salvare le bambine di domani.

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Al centro, Safia Moalin. Foto di Giulio Paletta per Amref

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