Solo il 12%delle donne uccise aveva denunciato. Serve formazione anche fra forze dell’ordine e magistrati. Allarme giovani: diminuisce l’età degli autori delle violenze
Elena Casanova aveva 49 anni. Aveva lasciato l’ex compagno un anno fa. Lui lo aveva scritto anche sui muri che l’avrebbe uccisa. L’ha aspettata sotto casa e finita a martellate. Elena è solo l’ultima, in ordine di tempo, del tragico elenco di vittime di femminicidio del 2021. Un elenco che continua ad allungarsi, mese dopo mese.
Iniziamo dalla fine, per raccontare un fenomeno difficile da decifrare, perché ancora manca un sistema univoco per definire e inquadrare ogni singola storia, ogni singolo delitto.
Se per alcune fonti, infatti, la prima vittima di quest’anno dovrebbe essere Laura Perselli, strangolata e poi gettata nell’Adige dal figlio Benno Neumair che aveva già ucciso il padre, per altre questo non può configurarsi come un delitto consumato nel perimetro del femminicidio, ovvero L’UCCISIONE DI UNA DONNA IN QUANTO DONNA.
Siamo partiti dai dati del Viminale, che ci dice che nel periodo 1 gennaio – 22 ottobre, sono state 96 le donne uccise nel nostro Paese.
82 in ambito familiare/affettivo.
Anche se ognuna di queste donne deve essere ricordata, perché ognuna è vittima di un sistema che non ha saputo proteggerla, non per ognuno di questi casi si può parlare di femminicidio in senso stretto. Così come, al contrario, ci sono femminicidi che non rientrano nell’ambito affettivo/familiare. È il caso, ad esempio, degli stalker estranei alla famiglia e agli affetti o dei vicini di casa.
Abbiamo ricostruito le vicende di ognuna di loro. E questo è il risultato:
Per Sky Tg24 sono 59 le vittime di femminicidio.
51 quelle che hanno trovato la morte per mano di partner o ex partner, in cui si possono delineare più concretamente le dinamiche riconducibili a questo tipo di reato.
Dietro questi numeri si nascondono storie di donne, famiglie, molto spesso bambini.
Sono numeri che fanno emergere una realtà che si ripete, anno dopo anno.
Siamo andati all’Istat, l’Istituto di statistica per analizzare questi dati, dove abbiamo incontrato la Direttrice, Linda Laura Sabbadini:
“Sono numeri che ci raccontano che i femminicidi sono un problema permanente, un problema strutturale. La violenza contro le donne può essere veramente sconfitta se la combattiamo permanentemente, al di là dei governi. Serve fare un salto di qualità nella risposta di protezione nei confronti delle donne che subiscono violenza”.
Il vero problema, come ci spiega Alessandra Kustermann, Primaria del Reparto Ginecologia d’urgenza Policlinico di Milano, che a Milano ha fondato il primo pronto soccorso antiviolenza, è riconoscerla. Ma il percorso che porta prima alla presa di coscienza che quello che si sta vivendo è una violenza, è lungo e complesso. E non sempre sfocia nella denuncia. Per questo proprio l’accesso al pronto soccorso è uno dei momenti più delicati.
"I segnali che possiamo leggere sono molti. Una donna che racconta di essere caduta ma è arrivata al Pronto Soccorso molte ore dopo. Oppure una donna che piange. Il dolore fisico si associa a un malessere più generale mentre le lacrime che sgorgano sono un segnale di qualcosa di più profondo. Questi sono segnali che devono mettere in allerta. Quello che succede, però, è che molte donne non parlano.
Noi possiamo metterci in ascolto e usare il tempo che la donna passa in ospedale in attesa degli esami clinici per provare a capire qualcosa in più, provare a farle capire che si può fidare. Ma i dati ci dicono che c’è un 30% di donne che arrivano al pronto soccorso con ferite apparentemente occasionali che ha alle spalle storia di maltrattameto, ma non lo denuncia. Questo si può capire a posteriori quando la donna parla. E lo abbiamo fatto. Ricordo che abbiamo ricostruito la storia di una donna che aveva avuto 18 accessi a pronto soccorso in diverse città, per evitare di essere tracciata. Le prime volte aveva parlato dei maltrattamenti. Poi si era trincerata dietro le scuse più varie: cadute dalle scale, sportelli presi in faccia. Quando si è nuovamente decisa a denunciare e uscire di casa abbiamo rimesso in ordine le cartelle cliniche e quello che è emerso sono stati anni di maltrattamenti e botte.
Ma non si può giudicare chi sceglie di non parlare.
Il momento più delicato di una relazione violenta con un uomo maltrattante, infatti, è quando lui capisce che quella donna è pronta ad andarsene. E’ per questo che è importante costruire una barriera di protezione intorno alla donna.
Deve essere pronta a denunciare e deve sapere che troverà una rete di centri antiviolenza che è in grado di elaborare una strategia insieme alla donna per farla uscire di casa”.
I Centri antiviolenza, in questo, rivestono un ruolo fondamentale. Sono luoghi in cui si trovano specialiste che si mettono in ascolto e danno aiuto.
“Ci sono problematiche che sono relative alla stessa presa in carico di chi subisce violenza perché non viene valutato il rischio – ci spiega Simona Lanzoni, vicepresidente di Fondazione Pangea onlus – In tanti casi di femmincidio che abbiamo raccontato in questi giorni non sono stati presi in considerazione gli indicatori di rischio, che erano assolutamente chiari: una donna già stata in un centro antiviolenza, una donna che va dal giudice nel giorno della separazione. Uno dei momenti più a rischio, ad esempio, è l’arrivo di un bambino, un contratto di lavoro. Tutti momenti che amplificano situazioni di rischio cui le donne sono sottoposte. Quando lui chiede l’ultimo incontro, prima di non vederci mai più. Incontro cui non andare assolutamente. Se una donna fa un percorso e conosce campanelli d’allarme può salvarsi la vita. Ma questi campanelli d’allarme dovrebbero essere ben chiari a tutti, perché tutti possiamo incontrare una donna vittima di violenza”.
“La prima cosa cerchiamo di capire la storia e fare la valutazione del rischio – ci racconta Marzia Bianchi, operatrice di uno dei centri antiviolenza di Fondazione Pangea onlus - Questo accade dopo prima telefonata o mail. Alcune ci contattano e non sono del tutto consapevoli di quello che accade dentro casa. Ci sono forme di violenza, come quella psicologica, che si fa più fatica a riconoscere”.
“La violenza ha una sua ripetizione cronica – spiega Alessandra Kustermann - Inizia con la crescita di una tensione, c’è esplosione di violenza, che può essere anche soltanto psicologica. Faccio un esempio: un uomo che torna a casa, i bambini che giocano. Lui che si innervosisce e inizia a gridare, accusando la compagna di non essere in grado di gestire le cose. La tensione sale e lei cerca di rimediare. Poi c’è la fase della luna di miele, in cui uomo chiede scusa. Ma attenzione, perché dietro queste scuse si nasconde, in realtà, una trappola: la colpevolizzazione della donna. Se lei fosse stata in grado di gestire i bambini, infatti, quell’esplosione di violenza non ci sarebbe stata”.
Ci vuole tempo, per capire. Ci vuole tempo per sfuggire al ciclo della violenza, per sradicare un fenomeno così complesso, che ha le sue fondamenta in un sistema in cui la cultura patriarcale, fatta di discriminazioni di genere, divisione di ruoli e di relazioni di potere disuguali tra donne e uomini, ha iniziato a essere messa in discussione 40 anni fa, nel 1981, quando è stato cancellato il delitto d’onore, cioè la legge che prevedeva una pena ridotta a chi uccidesse coniuge, figlia o familiari, per difendere il proprio onore.
“Consideriamo che il numero di denunce rispetto al numero di violenza è molto basso. Si arriva intorno a meno del 10% - dice Linda Laura Sabbadini, Direttrice Istat - L’Istituto superiore di statistica ha stimato che si arrivava a 7 milioni di donne che avevano vissuto violenza fisica nel corso della vita. A 9 milioni nel caso di violenza psicologica. Su questo bisogna interrogarsi perché la verità è che questa violenza è violenza impunita. Se solo il 10% denuncia vuol dire che non ci sono condizioni per denunciare. Da una parte è perché la maggior parte degli autori rimane impunito”.
“Come commissione parlamentare di inchiesta su femminicidio stiamo analizzando i casi verificati 2017-18-19, studiando tutte le carte, delitto per delitto – rivela Fabio Roia, Presidente della Sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Milano -È emerso che soltanto il 12% donne uccise aveva denunciato. Su questo 12% dobbiamo lavorare perché non possiamo più permetterci una sottovalutazione del rischio. Dobbiamo intervenire con misure contenitive mirate della libertà dell’aggressore. E per questo serve una magistratura specializzata che ancora nel nostro Paese non c’è. Ma c’è un 88% di donne uccise che non aveva ancora denunciato. Aveva magari parlato di situazioni di violenza con familiari e amici ma nella maggior parte dei casi aveva ricevuto cattivi consigli. Su questo dobbiamo lavorare. Se avete bisogno di un consiglio parlatene. Ma con persone competenti. Bisogna rivolgersi a un centro antiviolenza, che non è tenuto alla denuncia”.
“Purtroppo le violenze non sono denunciate. C’è un sommerso che non è determinato soltanto della vittima ma anche di chi sapeva e non ha parlato, ha taciuto – spiega il Capitano Mariantonia Secconi, Comandante sezione atti persecutori reparto analisi del RACIS dei Carabinieri – Bisognerebbe avere chiaro che la responsabilità giuridica di chi si macchia di un crimine equivale alla responsabilità morale di chi sapeva ma ha taciuto.
Tutti possiamo fare la differenza. Non è detto che debba essere necessariamente la donna vittima di violenza a denunciare. Tutti lo possono fare, tutti possono denunciare di essere stati testimoni di violenza. Tacere favorisce il sommerso”.
Capire il ciclo della violenza. riconoscere il crimine. Da qui si deve partire, perché quello che accade è che lo schiaffo venga tollerato, se non giustificato, dal sistema. Accade che gli stessi autori della violenza non capiscano che quello che hanno commesso è un crimine. La commissione parlamentare sul femminicidio lo scrive, nero su bianco: manca un tassello fondamentale, che è quello della formazione.
“Nel nostro ordinamento abbiamo buone leggi, ma non ancora la capacità di attuarle adeguatamente – dice la Direttrice dell’Istat Sabbadini, che fa parte della Commissione – C’è un problema di formazione di tutti gli operatori in campo. Forze dell’ordine, magistrati. Questo toglie tempestività nella capacità di dare risposta alle donne. Quando la donna viene uccisa è un fallimento della giustizia”.
“Quando una donna va a denunciare, è fondamentale che chi è preposto a prendere quella denuncia sappia riconoscere la violenza ma anche scrivere la denuncia – spiega l’avvocato Andrea Catizone, esperta nel diritto di famiglia – Quello è un atto probatorio che indirizzerà l’azione giudiziaria in un senso o nell’altro. C’è un processo che si dovrà fare e se quell’atto è fatto male rischia di compromettere tutto. E quel processo potrebbe finire in un’archiviazione”.
“Le leggi sono sempre necessarie ma non sufficienti, perché camminano sulle gambe delle donne che sono chiamate a interpretarle e applicarle – dice la Senatrice Valeria Valente, Presidente della Commissione - Quegli uomini e quelle donne che vivono nel nostro Paese, vivono in una società intrisa di stereotipi e pregiudizi, anche se dovrebbero esserne totalmente immuni. Questo non accade. Accade che tante volte anche chi deve applicare la legge sia portatore di stereotipi e pregiudizi. Accade che anche chi opera nel sistema giudiziario non è totalmente formato e specializzato. Ecco perché non sappiamo applicare l’ordinamento che esiste. Se già lo applicassimo nella maniera corretta saremmo già molto più avanti nel combattere il fenomeno della violenza contro le donne”.
“Quando devo valutare l’attendibilità di una vittima di violenza, devo capire che le sue dichiarazioni potrebbero essere contraddittorie, recessive – chiarisce il Presidente Fabio Roia – Questo significa capire il ciclo della violenza, ma è un percorso che non si impara all’università. Si impara sul campo, attraverso il lavoro al fianco di chi opera nei centri antiviolenza, nei pronto soccorso. Questo tipo di preparazione in Italia manca ancora”.
“Nel 96% dei tribunali non c’è preparazione a leggere la violenza – ribadisce la Senatrice Valente – Nella maggior parte dei casi viene derubricata a conflitto. Attenzione però. Se capiamo che siamo davanti a una violenza applichiamo delle norme più restrittive. Altrimenti l’impianto accusatorio è diverso. Ma mentre il conflitto avviene fra persone che stanno sullo stesso piano, la violenza è all’interno di una relazione profondamente asimmetrica. Molto spesso quella che è violenza non viene riconosciuta”.
“La magistratura lavora in palazzi di giustizia che non sono delle iole, respirano il contesto sociale e culturale. Non c’è ancora la cultura di condanna delle violenze, senza se e senza ma. Non è infrequente che assistiamo a forme di comunicazione sessiste, dove in qualche modo si cerca di colpevolizzare le vittime di violenza. Questo è un tipo di comunicazione che non va fatto perché il problema che noi abbiamo nei palazzi di giustizia è che questi signori non riconoscono che la violenza è un crimine. È un crimine al pari di rapinare una banca o spacciare droga"
Affrontare la violenza per ciò che è: un crimine. E poi mettere in campo tutti gli strumenti di protezone che negli ultimi mesi si sono arricchiti di nuovi protocolli. Ce li spiega il Prefetto Francesco Messina, direttore centrale anticrimine della Polizia di Stato.
“Faccio il calcolo su tutte le iniziative che abbiamo preso per vedere se c’è feedback. Ho fatto tre circolari a Questori e divisioni anticrimine per sensibilizzare e potenziare l’azione di contrasto del femminicidio. In un anno abbiamo avuto una diminuzione. Bassa, ma l’abbiamo avuta. La prosecuzione su questa strada è incoraggiante. Non è stato chiesto solo l’ammonimento, ma è stata implementata la sorveglianza speciale, è stato chiesto di redigere protocolli con le carceri, affinché ci venisse comunicata la scarcerazione della persona tempestivamente, in modo da riuscire a sensibilizzare i commissariati. Altri protocolli ci sono serviti per entrare in contatto i maltrattanti con gli psicologi e così abbiamo abbattuto del 90% la recidiva degli uomini violenti. Tutto questo nel corso di quest’anno. Abbiamo visto l’esito. Il dato è incoraggiante. Ci vuole un po’ di tempo, perché il sistema entri a regime e si possano salvare vite”.
“I riscontri dati dai numeri sono positivi. Ci dicono che il 70% delle vittime denuncia a noi questo genere di reati – spiega il Capitano Mariantonia Secconi, Comandante sezione atti persecutori reparto analisi del RACIS dei Carabinieri - Ricordo, per chi non lo sapesse, che il maltrattamento è procedibile d’ufficio e che quindi la procedura va avanti anche senza la volontà della donna di denunciare”.
C’è un ultimo dato, forse quello che nasconde più insidie perché riguarda i giovani, come ci dice il Presidente Fabio Roia del Tribunale di Milano. Quelli nati dopo tutte le riforme del codice della famiglia, civile e penale. Un allarme che testimonia, più di ogni altro, come gli stereotipi di genere e la sottovalutazione della violenza siano ancora radicati nella nostra società.
“Nei giovani abbiamo dato preoccupanti. Come tribunale di Milan monitoriamo le sentenze emesse per reati di genere. L’età delle donne che hanno denunciato e degli autori si è abbassata ulteriormente. Questo può essere positivo da un lato, perché significa che la donna giovane denuncia. C’è però da chiedersi perché si sia abbassata età degli autori. Forse la sensibilizzazione che si fa nelle scuole non sta funzionando. Dobbiamo lavorare sulle forme di rispetto di tutte le diversità, dobbiamo essere più incisivi e competenti”.