Aborto in Italia, cosa dicono i numeri. GRAFICI
Cronaca ©GettyDopo la pubblicazione dell’ultima Relazione sullo stato di attuazione della legge 194 facciamo il punto sul diritto all’interruzione di gravidanza nel nostro Paese
Meno aborti in assoluto e in relazione alla popolazione. Maggiore percentuale di interruzioni volontarie di gravidanza (Ivg) tramite metodi farmacologici e una leggera diminuzione dell’obiezione di coscienza tra i ginecologi, che resta comunque molto alta. Ma anche grandi disparità tra le diverse aree dello Stivale, ricorso alla chirurgia ancora troppo frequente e alcune province da cui, per abortire, pare obbligatorio emigrare.
Gli ultimi dati presentati nella Relazione annuale sullo stato di attuazione della legge 194 permettono di scattare una fotografia sull’applicazione del diritto all’interruzione volontaria di gravidanza in Italia e sul suo andamento nel tempo.
Diminuzione nel tempo
Partiamo dalle conferme. Gli aborti nel nostro Paese continuano a dimnuire. Il trend è ormai trentennale: il picco è stato registrato negli anni 1982 e 1983 con oltre 230mila mila Ivg effettuate e da allora il totale è in costante discesa. Nel 2020 per la prima volta siamo scesi sotto quota 70mila e la tendenza è stata replicata nel 2021, ultimo anno per il quale i dati sono disponibili: poco più di 63mila le interruzioni registrate.
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Nel frattempo anche il tasso di abortività, che stima il numero di Ivg per donne in età fertile (15-49 anni), è sceso fino a 5,3 per mille (era 5,4 nel 2020). La diminuzione dei numeri assoluti, dunque, non dipende solo dal calo della popolazione generale. Nel 1982, per avere un paragone, il tasso era oltre tre volte superiore al 2020: 17,2 per mille.
Guardando alle differenze territoriali, la Liguria è la regione in cui, in rapporto alla popolazione, vengono effettuati più aborti (7,3 per mille), quasi il doppio rispetto alla Basilicata (3,7), l’area del Paese dove se ne effettuano meno.
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Se si guarda ai confronti internazionali, il tasso di abortività italiano risulta generalmente tra i più contenuti in Europa. come si legge nell’ultima Relazione. Nel periodo 2016-2021 l’indicatore tricolore, calcolato sulle donne tra i 14 e i 44 anni (quindi una fascia leggermente differente da quella indicata sopra), è più basso di quello svizzero, portoghese, spagnolo e tre volte inferiore a quello registrato in Svezia e Inghilterra e Galles.
Che tipo di aborto?
Ma il numero di aborti (assoluto e in relazione alla popolazione) è solo uno degli indicatori che contribuiscono ad offrire un quadro più preciso della situazione. Anche il tipo di Ivg praticata è rilevante per valutare lo stato del diritto delle donne a interrompere la gravidanza in Italia. E’ indicativa, in questo senso, la possibilità di ricorrere all’aborto farmacologico, molto meno invasivo e con minori rischi rispetto a quello chirugico.
Sotto questo aspetto, i numeri raccontano che nel nostro Paese il ricorso a questa pratica è in costante aumento negli ultimi anni. E proprio tra il 2020 e il 2021 le statistiche segnalano un salto in avanti notevole, quasi 14 punti percentuali: dal 31,9 per cento al 45,3 per cento di interruzioni tramite farmaco.
E’ una buona notizia in una tendenza a crescere. Si è passati da poco più di 7mila Ivg “farmacologiche” nel 2011 a oltre 28mila del 2021.
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Tuttavia, nonostante la crescita degli ultimi anni, questa opzione è ancora poco praticata in Italia rispetto ad altri Paesi. E questa, invece, non è una buona notizia. Nel Regno Unito (87 per cento, ma i dati si riferiscono solo a Inghilterra e Galles) e in Francia (76 per cento), per esempio, le percentuali di aborti farmacologici rispetto al totale delle interruzioni di gravidanza sono molto più alte.
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Inoltre, si registrano grandi disparità tra le regioni. In Calabria e Liguria, per esempio, più del 75 per cento delle Ivg avvengono tramite somministrazione di farmaci, il dato più alto del Paese. Differente lo stato delle cose nelle Marche, dove gli aborti farmacologici rappresentanto appena il 23 per cento del totale.
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La questione mobilità
Un altro indicatore importante per comprendere in quale misura il diritto all’aborto è garantito in Italia riguarda gli spostamenti. Idealmente, ogni donna dovrebbe poter abortire nella provincia e nella regione di residenza. Questo non sempre accade e non nella stessa misura in tutti i territori.
Per esempio, quasi una Ivg su 3 effettuata da residenti della Basilicata viene praticata fuori dai confini regionali. Una su quattro per quanto riguarda le donne che risiedono in Molise. Si tratta di percentuali superiori alla media nazionale (8 per cento).
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Secondo il ministero della Salute, questi dati non destano particolari preoccupazioni. Riflettono una situazione di “una bassa mobilità fra le Regioni” e sono “in linea con i flussi migratori anche relativi ad altri interventi del SSN”. In sostanza, si legge nella Relazione, dove si emigra per abortire si emigra anche per altre prestazioni. Inoltre, si afferma sempre nel documento, alcune di queste “migrazioni" potrebbero non essere effettivamente tali, dal momento che riguarderebbero donne che vivono già nella regione in cui si effettua l’intervento senza avere cambiato residenza.
Tuttavia, se si restringe ulteriormente lo sguardo si scopre, sulla base dei dati Istat, che nel 2021 in due province - Fermo e Isernia - tutte le donne che hanno dovuto effettuare una Ivg sono dovute emigrare. In totale, sono 9 le province in cui più della metà delle Ivg effettuate da residenti sono state realizzate al di fuori dei confini provinciali.
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La questione dell’emigrazione richiama anche quella della disponibilità di strutture sul territorio. Anche su questo aspetto la Relazione annuale offre delle indicazioni e permette di individuare quelle aree dove la disponibilità del servizio, almeno dal punto di vista strettamente numerico, risulta bassa o comunque inferiore alle media, come in parecchie zone del Centro e Sud d’Italia. Per esempio in Campania, Molise, Lazio ma anche nella Provincia di Bolzano e di Trento: solo una struttura su due, tra quelle attrezzate, offre il servizio di Ivg.
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Il nodo delle obiezioni
In leggera discesa la quota di ginecologi che, per ragioni di obiezione di coscienza, si rifiutano di praticare l’aborto. La cifra, per il 2021, scende al 63 per cento, dal 65 per cento del 2019. Per quanto il dato sia in calo negli ultimi anni (nel 2016 si era sopra il 70 per cento), circa 2 ginecologi su 3 non effettuano interruzioni di gravidanza.
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Anche in questo caso, come per altre statistiche, la differenza tra i diversi territori può essere grande. Ci sono aree come la Puglia, l’Abruzzo e la Sicilia dove oltre l’80 per cento dei ginecologi si dichiara obiettore.
Complessivamente - come mostra la mappa qui sotto - il problema è più diffuso nel Sud dove le percentuali di obiettori sono mediamente più alte rispetto al resto del Paese.
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