Simone Verde, alla guida degli Uffizi: "Non chiamatemi direttore star"

Un lungo colloquio con Simone Verde, 49 anni, museologo e storico dell’arte italiana che da bambino voleva fare l’esploratore. Il nome su cui pochi avrebbero scommesso per la guida degli Uffizi e, all’inizio, nemmeno lui era così convinto della candidatura. Dal Complesso Monumentale della Pilotta di Parma a Firenze, il suo disegno sta prendendo la forma del “Grand Tour”. E non chiamatelo director star, le star durano poco e lui non vuole farsi consumare così presto. È direttore da febbraio 2024 di uno dei musei più importanti al mondo. È questa la vita che sognava da bambino? Ah andiamo proprio sul personale… io sognavo di fare l’esploratore, ma le uniche cose che rimangono da esplorare hanno a che vedere con i recessi della mente umana e, alla fine, questa è la mia reinterpretazione di questa passione. Studi tra Roma e Parigi, poi responsabile della ricerca scientifica e della produzione editoriale per il museo del Louvre ad Abu Dhabi, prima dell’esperienza a Parma. Cosa dobbiamo imparare dagli altri Paesi? Beh, diciamo che dagli anni '80, tutte le discipline legate al mondo della cultura hanno subito un terremoto, che è quello dei “postcolonial studies”. Il testo più importante che ha dato inizio a questa nuova movenza è “Orientalism” di Said. Da quel momento ci si è resi conto che la ricostruzione della storia e della cultura, in Occidente, era per così dire parziale, ma con la pretesa di essere universale. Non parlo del punto di vista politico, ma di quello scientifico. Una pretesa universalità e pretesa scientificità che avevano al loro centro un buco nero mai affrontato. È quello che poi il sociologo Bourdieu avrebbe codificato come problema del sapere scientifico umanistico con il termine di “riflessività”. Con un diverso impatto tra le nazioni? Gli altri Paesi hanno vissuto questa rivoluzione partendo da un dato molto negativo: il colonialismo e i suoi risvolti. L’Italia il colonialismo l’ha vissuto in una fase estremamente marginale, per quanto molto aggressiva. Non fa parte del nostro retaggio, ed è chiaro che il risvolto negativo di non essersi confrontati con quei problemi è che siamo diventati marginali rispetto a molto del dibattito internazionale in campo scientifico. Il rischio è alto perché quello che sta succedendo è esattamente quello che è successo alla fine dell’Ottocento. Nel momento in cui veniva codificata la storia dell’arte come nuova disciplina ufficiale della cultura europea, l’Italia se l’è fatta scrivere, la propria storia dell’arte, dai tedeschi e dai francesi. Sta succedendo esattamente la stessa cosa oggi, cioè la storia dell’arte italiana sostanzialmente la stanno scrivendo all’estero, perché noi essendo fuori da quelle compagini, non siamo motori dell’innovazione che ci riguarda. Vuole fare un centro di ricerca a Boboli… Diversa dalla storia dell’arte è la museologia. Un terreno sostanzialmente nuovo in Italia. La museologia è nata negli anni '50 con Andrea Emiliani. Abbiamo degli importantissimi studiosi di storia delle collezioni, ma come disciplina, così come viene invece vissuta, interpretata e concepita, ad esempio nel mondo anglosassone, noi sostanzialmente la stiamo acquisendo da forse nemmeno vent’anni. La museologia cioè come congiunzione fra storia dell’arte e storia delle collezioni, in cui si misurano i valori della storia dell’arte in funzione anche della storia sociale. La nostra collateralità rispetto a questi campi, con il centro studio, io propongo invece di affrontarla e, in qualche modo, cominciare a risolverla. Senza ovviamente abdicare alla nostra tradizione di studi storici che ha moltissimo da insegnare agli altri. Finiamo qui l’intervista teoretica. Mi ha parlato di mondo anglosassone dove i musei sono in gran parte gratis, vorrei farle una domanda sul prezzo del biglietto d’ingresso. Per entrare alle Gallerie degli Uffizi adesso si pagano 25€, secondo lei è un prezzo congruo? Dobbiamo prendere in analisi gli esempi che ci vengono dall’estero in maniera sistemica, perché soltanto in quel modo si comprende come funziona un sistema museale. Nel mondo anglosassone lei entra gratis nei musei, ma poi le mostre costano l’ira di Dio. In Francia lei paga i musei come da noi, però poi ci sono i sistemi di accessibilità su base sociale. Si può discutere su quale di questi modelli sia il migliore, tuttavia non si può dire che in Italia non ci sia la possibilità di entrare nei musei gratuitamente e che non ci sia tutta una serie di scontistiche… A me piace molto il modello francese, però poi bisogna calarlo anche dentro il sistema sociale. In Italia non credo ci sia una tessera di disoccupazione che dà diritto a scontistiche in tutti i campi. Ha già sentito il nuovo Ministro della Cultura? Sì, ci siamo scritti. E avete intenzione di vedervi? Giuli ha mostrato interesse? Sì, certo, ma ci mancherebbe, è chiaro. Stiamo parlando degli Uffizi. In tutti questi anni sono stati macinati record sulle presenze. E ogni volta la comunicazione ha puntato molto su questi dati. Pensa sia un metro valido per giudicare il suo lavoro? La quantità è uno dei metri per giudicare il mio lavoro, ma la quantità deve corrispondere anche alla qualità, bisogna capire che cosa diamo ai visitatori, noi siamo un servizio pubblico. Anche perché dove li mettiamo tutti questi visitatori? Ci sarà un limite da non oltrepassare, no? Certo. È la ragione per cui molti musei si stanno ampliando con depositi aperti all’esterno. Ed è quello che, tra l’altro, stiamo facendo anche noi. Il tema è, io credo, che la quantità debba essere vista come una sfida. Il fatto di avere milioni di persone che entrano in un museo, in un tempo difficile come questo, per una direzione culturale e sociale, è un’opportunità che non bisogna assolutamente lasciarsi sfuggire Apriamo il capitolo “progetti futuri”. Cominciamo da Palazzo Pitti, forse lo spazio in cui lei può più sperimentare. Noi dobbiamo sperimentare su tutto. Senz’altro Pitti ha una sua unicità dovuta al fatto che il Palazzo è rimasto sostanzialmente inalterato nei suoi spazi collezionisti per secoli, ma gli Uffizi rappresentano una sorta di enciclopedia della storia dei musei occidentali, sono stati il primo museo europeo che ha imposto un modello, anche architettonico, copiato da tutti. L’insieme degli spazi collezionistici deve essere visto come un tutto. Noi dobbiamo risottolineare il sistema, ritornando all’estetica tradizionale del museo, che è quella del Grand Tour e che fu di esempio per tutto il mondo e poi venne cancellata a partire dal Novecento. A Pitti, come prima cosa, dobbiamo ripensare l’allestimento del Tesoro, sottolineare l’importanza della Palatina, renderlo un museo contemporaneo, che vuol dire visibilità delle opere e accessibilità. Noi abbiamo ancora i condizionatori accanto alle finestre… e poi raccontare la storia della reggia attraverso i mobili, anche queste opere d’arte. Stiamo continuamente lavorando alla riapertura degli appartamenti reali e vogliamo che, l’ultimo piano sia adibito alle mostre. Dobbiamo anche valorizzare meglio la Galleria Moderna, abbiamo la collezione più importante dei Macchiaioli, e il Museo del Costume che ci conduce al tempo presente. Fermiamoci sul giardino. Boboli? Boboli ha bisogno sicuramente di maggiori cure. Oltre al Casino del Cavaliere, dove metteremo appunto il centro studi, stanno partendo due cantieri da circa 11 milioni di euro per il rifacimento del restauro dell’Anfiteatro e dell’isola di Nettuno. Stiamo anche lavorando sui giardini storici per, ad esempio, far in modo che il Giardino del Cavaliere ritrovi la sua forma originale. Percorriamo il Vasariano, nel viaggio di ritorno dall’Oltrarno… quando sarà riaperto e come lo vedremo? A Dicembre, dipende da alcune tempistiche, e lo vedremo come fu all’inizio, quando venne inaugurato, come un luogo di comunicazione senza opere. Abbiamo parlato tanto dell’offerta estera, negli ultimi anni sono stati aperti diversi musei per bambini. Come sarà il museo dei bambini agli Uffizi? Dobbiamo decidere come vogliamo trattare i bambini, in un tempo contemporaneo in cui tutto ciò che facciamo deve essere giustificato ai cittadini, non è possibile usare i bambini, tenerli ostaggi di un indottrinamento, anche perché ormai si ribellano. Per poterli coinvolgere nel nostro lavoro bisogna convincerli e per convincerli bisogna fare un enorme atto di umiltà. Bisogna parlare loro da pari a pari. Il museo dei bambini serve sostanzialmente a questo. Le opere verranno messe alla loro altezza. Invece di cominciare dalla pappardella sulle opere, cioè dalla narrativa sulle opere, si comincia proprio dall’esperienza. Sarà proprio un museo alla loro altezza. E sarà proprio quello che è un museo del XXI secolo deve proporre a queste giovani generazioni, cioè l’opportunità di capire perché una società si interessa così tanto ad alcuni oggetti, patrimonializzandoli. Questo progetto verrà finanziato dai Friends of Uffizi statunitensi. I tempi non sono strettissimi ma, secondo me, tra un paio d’anni, dovremmo poterlo inaugurare. Parliamo della gru più famosa d’Italia, quella posizionata nel piazzale per la movimentazione delle opere, oggetto di tanta cronaca e di tante polemiche. L’Italia è un po’ tossicodipendente dalla cronaca, a me piace più la storia. Noi lavoriamo tutti i santi giorni al progetto dello smontaggio di questa gru. Siamo pancia a terra su questo obiettivo, ma qui l’orizzonte temporale non dipende da me. Il primo giorno utile che potrà essere smontata verrà smontata e non c’è bisogno di sollecitarci su questo. Ci sono delle tempistiche di cantiere che porteranno, nei tempi più stretti possibili, allo smontaggio di questo obbrobrio il cui orrore colpisce me in primis, tutti i giorni. Lei ha davanti tutti i giorni anche tanta bellezza, so che si è chiesto e ha chiesto al Ministero, prima di proporsi, se poteva essere “degno” di questo ruolo, quale è il suo primo pensiero quando entra in Galleria? Sì, sì, è vero, l’ho chiesto. Sento la responsabilità. Paura no, ma adrenalina sì. Ho la lista delle cose che devo fare, in un ordine gerarchico molto chiaro e nei tempi che vorrei più rapidi, ma che a volte cozzano con la realtà delle amministrazioni. Io sono qui come servitore dello Stato. Trovo che Firenze sia una città che ha una grande consapevolezza del suo patrimonio. Qui c’è amore e esigenza. Che sviluppo pensa ci sarà con l’Intelligenza artificiale nell’esperienza museale? Ho appena partecipato in Uzbekistan a un forum su questo con il Ceo del Guggenheim e il direttore dell’ Al Thani Collection di Parigi. L’intelligenza artificiale è importantissima e strategica nei settori della ricerca di altissimo livello. Il tema è questo. Riuscire, da una parte, ad utilizzarne tutti i vantaggi in termini di raffinatezza della ricerca, per quanto ci riguarda, anche per la diagnostica, dall’altro lato arginare invece le applicazioni improprie che finiscono per abbassare il livello di competenze e anche l’Immaginazione del pubblico. Dal punto di vista dei Musei sono state individuate varie strategie. Usare l’A.I. come strumento di creatività artistica senz’altro, perché se ci sono degli artisti che lavorano sull’intelligenza artificiale, senz’altro devono avere piena cittadinanza da noi. Poi usare l’intelligenza artificiale per la ricerca, usarla per la mediazione, facendo riferimento a dati che sono strettamente selezionati. Al resto metterei un argine. Intendo all’uso più banale e ordinario, a quello che rischia di appiattire un museo su un immaginario collettivo privandolo di originalità e creatività. Come vorrebbe lasciare gli Uffizi alla fine del suo mandato? Vorrei che sembrasse che io non ci sia mai stato. Gli Uffizi devono ritrovare quella loro identità storica talmente forte che deve sembrare che siano rimasti così da secoli, semplicemente perfettamente conservati. Eppure si è parlato molto di voi direttori, davvero non si sente un direttore star? No, assolutamente. Se c’è una forma di protagonismo che un direttore può avere è in chiave crociana. Nella misura in cui comunica di arte producendo arte, perché fa parte dell’intuizione. La conoscenza estetica è una conoscenza intuitiva e di conseguenza è chiaro che noi siamo in qualche modo artisti che, con tutte le precauzioni della filologia storica, maneggiano delle collezioni per rigenerarle nel contemporaneo, rendendole leggibili e comprensibili. Non soltanto sul piano intellettuale, ma anche estetico. Gli allestimenti devono provocare un’intuizione estetica presso il visitatore. Questo è il massimo della libertà che accordo alla mia professione, ma anch’essa è codificata dentro una deontologia. Ma director star… proprio no. Ci sono troppe star in questa società, bastano cinque minuti su TikTok. Vale proprio la pena diventare una star? Le star durano cinque minuti e io non voglio essere consumato in cinque minuti.