A Lampedusa si ricordano le vittime del naufragio del 3 ottobre 2013

Cronaca
Raffaella Daino

Raffaella Daino

A Lampedusa tornano i sopravvissuti e i familiari delle vittime delle due stragi del 3 e 11 ottobre 2013, per ricordare i 636 morti, eritrei e siriani, tra cui 60 bambini, e per chiedere che si fermino le stragi in mare. Negli ultimi 10 anni le vittime sono state oltre 30mila.

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Un gruppo di profughi siriani e palestinesi approda sugli scogli di Cala Pisana tra la sorpresa dei turisti e  bagnanti  in vacanza sull’isola dove è ancora piena estate. Gioiscono perché sono salvi. Partiti dalla Libia a bordo di un piccolo scafo in vetroresina sono sopravvissuti alla traversata e alle condizioni meteo marine proibitive delle ultime ore. Intanto al molo Favaloro le motovedette escono di continuo per tornare cariche di naufraghi.  Le operazioni di soccorso sono incessanti da giorni. Oltre mille i migranti salvati in 24 ore e portati sull’isola dove sono in corso le iniziative per ricordare le due stragi che il 3 e l'11 ottobre 2013 provocarono 636 vittime, eritrei e siriani tra cui 60 bambini. "Si disse mai più morti in mare,  e invece le vittime in 10 anni sono state  30mila e 300" ricordano le associazioni umanitarie come Save the children e le agenzie  delle Nazioni unite Unicef, Unhcr, Oim che rinnovano come ogni anno l’appello affinché l’Italia e l’Europa tornino a presidiare il mediterraneo centrale per fermare le stragi con missioni coordinate di ricerca e soccorso come quella che fu avviata e presto chiusa pochi mesi dopo quelle tragedie nel 2014.

 

Un appello e una denuncia che ogni anno si rinnovano, perchè  si inverta la tendenza riguardo alle politiche sull'immigrazione che invece di fatto sono sempre più restrittive, puntano a ridurre i flussi migratori più che a salvare vite. Le navi delle organizzazioni umanitarie non governative sono tenute a distanza, inviate in porti lontani, a diversi giorni di navigazione, dopo ogni soccorso, e sottoposte a provvedimenti di fermo nella maggior parte dei casi poi annullati in seguito a ricorso, ma intanto lungo la rotta migratoria più letale si continua a tentare la traversata e le motovedette che partono dal lembo più a sud d'Europa non riescono sempre ad arrivare in tempo e salvare tutti. 

 

Informare e coinvolgere le nuove generazioni nel dibattito sul fenomeno migratorio attraverso attività didattiche sia a livello nazionale e internazionale, è uno degli obiettivi del Comitato 3 ottobre  presieduto da Tareke Bhrane, che si batte anche per creare una banca dati europea del DNA per il riconoscimento delle vittime e riformare il Regolamento di Dublino, favorire l’integrazione e l’inclusione della popolazione immigrata nelle comunità locali d’arrivo nel nostro Paese, condizione sostanziale per la coesione sociale di un Paese sempre più interculturale, sostenere l’apertura di corridoi umanitari e sistemi di ingresso legali e sicuri per mettere fine alla violazione dei diritti umani e delle morti in mare.

 

Alla tre giorni di commemorazioni a Lampedusa interviene tra gli altri il capo della Procura di Gela Salvatore Vella.  "Centinaia di corpi senza vita vengono ritrovati in mare ogni anno e a volte passano anni prima che vengano identificati. In questa giornate si è focalizzata l'attenzione sulla necessità di restituire nel più breve tempo possibile i cadaveri alle famiglie.  L'identificazione non può avvenire nell'ambito di un processo,  come spesso accade quando si tratta di delitti nel quadro dell'immigrazione clandestina. E' necessario, come chiedono Nazioni Unite e Parlamento europeo, creare una struttura che non sia di polizia nè giudiziaria ma che si occupi solo di questo,  di identificare le vittime tramite dna, impronte o riconoscimento facciale per tentare di incrociare i dati con quelli dei familiari che attendono risposte a volte per anni. Lo Stato si deve prendere questa responsabilità, per compiere un atto umanitario".

 

 

 

Comitato 3 ottobre

Per capire e sapere cosa accade nel Mediterraneo diventato un cimitero per migliaia di sfortunati in fuga da miserie e guerra e in cerca di una vita migliore, studenti  arrivati da tutta Europa incontrano sull'isola i familiari delle vittime e una rappresentanza dei 155 sopravvissuti che ogni tornano a Lampedusa per raccontare quei giorni terribili.

 

"Se avessi saputo che in mare è più facile morire che sopravvivere non lo avrei fatto dice uno dei superstiti, che si sono ricostruiti una vita in diversi paesi del Nord Europa. "Li ero già morto, non avevo scelta se non partire" è la voce diversa di un altro compagno di viaggio. "La nostra aspettativa era vivere in pace e la pace l'abbiamo trovata nei paesi che ci hanno accolti", concordano. E alla domanda: "avete mai pensato cosa possiamo fare per evitare che accada quello che da troppo tempo accade nei nostri mari?" la risposta è: "ciò che conta è combattere le dittature che stanno lacerando i nostri paesi solo così potremo un giorno restare a casa ed evitare di rischiare di compiere una traversata così pericolosa"

 

Tra le loro voci quella di Pietro Bartolo, negli ultimi anni europarlamentare, medico dell’isola  al tempo del naufragio.  Racconta la storia tragica di quel sacco pieno di cadaveri che si trovò ad ispezionare dopo il naufragio del 3 ottobre. "Tra loro vidi quello di una ragazza bellissima che sembrava morta e che invece aveva un flebile battito nel polso e come in un miracolo riuscì a salvarsi. La rividi anni dopo e non la riconobbi, l’avevo vista morta in un sacco nero e ora ce l’avevo davanti, era viva ed era incinta. Si chiama Kebrat ed è tornata qui anche quest’anno". L'abbraccio accompagnato da un applauso è commovente e anche gli occhi di Bartolo si fanno lucidi. "Loro ce l’hanno fatta, perché non devono  essere salvati tutti quelli che attraversano il mare?   Lampedusa è una zattera in mezzo al mare.  Quando mi chiedono come mai i lampedusani non si stancano di salvare vite rispondo che siamo un popolo di mare e accogliamo tutto ciò che dal mare arriva".

Pietro Bartolo con una delle sopravvissute alla strage del 3 ottobre 2013

I racconti si susseguono, in queste giornate di commemorazione, organizzate dal Comitato 3 ottobre che si costituì all'indomani della strage e ogni anno prota a Lampedusa i profughi che riuscirono a salvarsi.

Racconta la sua storia Wahid Yussed, siriano sessantunenne, già direttore del reparto di Pneumologia in un ospedale della Libia. Nel naufragio dell’11 ottobre ha perso quattro figlie: Randa, Sherihan, Nurhan, Christina di 10, 8, 5 e mezzo e quasi 2 anni. Bambine i cui corpi, dopo il naufragio non sono stati mai trovati. Dopo il naufragio è stato, per 7 anni, come rifugiato politico, in Svizzera. Da 2 anni, insieme alla moglie anch’essa sopravvissuta e con le due figlie nate successivamente, vive a Dussemburg in Germania dove studia il tedesco e spera di poter tornare a lavorare in reparto.

Solom invece è sopravvissuto al naufragio del 3 ottobre. Ora vive e lavora in Svezia per un’azienda trasporti di Avesta. E’ sposato con una connazionale e ha un bambino. Racconta  quei giorni drammatici, di essere scappato dall’Eritrea, e, con i suoi amici, di avere attraversato l’Etiopia, il Sudan, il deserto del Sahara fino in Libia. Era stato rapito, ai familiari avevano chiesto 5 mila dollari per essere liberato. Suo fratello ha pagato il riscatto ed è partito finalmente dalla Libia. Dopo il naufragio è arrivato in Svezia. All’inizio non è stato semplice. Il governo svedese, una volta riconosciuto lo status di rifugiato, gli ha prestato 15 mila euro per acquistare l’arredamento per l'appartamento, per pagarsi un buon corso di svedese e per iscriversi ad un corso professionale utile.

Fanus è sopravvissuta al naufragio del 3 ottobre 2013. Aveva 16 anni il 3 ottobre ed è stata l’unica a riconoscere lo scafista e a denunciarlo. E’ rimasta 3 mesi, allora, all’interno dell’hotspot. Da Lampedusa è arrivata in Svezia dove ha vissuto alcuni mesi in un centro di accoglienza. Oggi ha tre figli e spera di diventare cuoca e di lavorare nella ristorazione.

Aster era la moglie di Yoannes morto nel naufragio del 3 ottobre 2013, il corpo mai identificato ufficialmente. Aster e Yoannes vivevano con i loro 3 figli in un campo profughi in Sudan. Venne a sapere da un trafficante che il marito era morto nel naufragio. Dal 2016 vive in Svezia con i figli ed è così riuscita a realizzare il sogno del marito. Dopo un primo anno in un centro d’accoglienza, ha imparato lo svedese ed ora lavora come operatrice socio sanitaria in una RSA. Ora, il suo desiderio è quello di dare una degna sepoltura al marito.

Adal è stato il primo, il 3 ottobre del 2013, ad arrivare, da naufrago, a Lampedusa e a ricostruire tutti i nomi delle vittime. Ha perso suo fratello nella tragedia. Ora vive a Stoccolma.

Siriano, sopravvissuto con la moglie Feryal e il figlio Anas al naufragio dell’11 ottobre 2013. Refaat ha perso nel naufragio due figli: Mohammad, 9 anni, e Ahmed, 13. Oggi vive ad Amburgo, dove per il momento non lavora. In Siria, a Damasco faceva il barbiere, ma non ha ancora aperto il suo negozio. Dopo quello che è accaduto non sta ancora bene psicologicamente e il governo tedesco gli permette di restare a riposo fino a quando non mi sarà ripreso dando alla famiglia un sussidio. Dal momento della tragedia cerca disperatamente i suoi figli. I loro corpi, ad oggi, non sono stati identificati. Ha fatto l’esame del Dna con il supporto del laboratorio Labanof di Milano, ma il loro DNA non corrisponde con nessun campione estratto dai corpi recuperati in mare. Mohammad e Ahmed potrebbero essere in uno dei cimiteri della Sicilia in cui negli anni sono stati sepolti i resti dei morti senza nome recuperati in mare.

Alex è sopravvissuto al naufragio del 3 ottobre. Nel naufragio ha perso il suo più caro amico, ma da allora non ha più parlato di quella notte. Non è mai esistita, è una cicatrice nera dentro all'anima. Ora vive a Amersfoort, in Olanda ed è padre di una bambina, Enos. Ha una moglie, Rachele.

Gere è sopravvissuto al naufragio del 3 ottobre. "In Svezia dove vivo ormai da anni mi sento abbastanza integrato anche se devo ancora migliorare l'uso della lingua, ambientarsi non è facile per nessuno. Alla fine succede che noi eritrei ci frequentiamo solo tra di noi. Gli svedesi ci trattano bene, non sento insofferenza, ma sanno anche come mantenere le distanze". Gere ha poca voglia di parlare. E di ricordare quello che è stato, per lui, il 3 ottobre.

ll 3 ottobre del 2013, Yosef è riuscito a restare a galla per cinque ore. Era a due chilometri dal porto di Lampedusa. Era partito dalla Libia e poche ore dopo è diventato uno dei sopravvissuti alla più grave strage del Mediterraneo. "Non so come ho fatto, Ricordo le voci, le grida, il rumore delle braccia che cercavano di spezzare l’acqua". Per Yosef è quasi impossibile raccontare. Ha 31 anni, è uno di quelli che è riuscito a ripartire da zero. Oggi vive in Svezia, si è sposato con la donna che amava, eritrea come lui, e insieme sono diventati genitori di due bambini.

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