Le carceri minorili del Sud: "tra violenza agita e violenza vissuta"

“Prima di entrare in carcere mi alzavo la mattina presto, alle 8:30, e vedevo già come dovevo fare i soldi. Andavo al bar prendevo una cosa da bene e intanto mi guardavo attorno. Appena vedevo qualsiasi cosa che potevo fare la facevo”. Antonio è un ragazzo del sud. “Qualsiasi cosa che potevo fare”, come ci ha raccontato, significa delinquere. Una prassi, un’abitudine. Ce lo raccontano i ragazzi stessi in questi Istituti per Minori dove il sovraffollamento non sembra un problema e dove per loro starci è soltanto una tappa di un percorso. “A me mi piace fare la bella vita” ci racconta Antonio con straordinaria lucidità e freddezza “come a tutti i ragazzi della nostra età. Ci piace fare la bella vita, stare tranquilli con le ragazze, bere, fumare… fare quello che vogliamo senza che nessuno ci dice niente”. Cose che si potrebbero fare anche senza delinquere, gli precisiamo noi, magari lavorando. “Non ci ho mai pensato a lavorare, non è una cosa che vorrò mai fare nella mia vita”. La risposta di Antonio è categorica e sconvolgente al tempo stesso. Come può un minorenne pensare che la sua vita è destinata ad essere trascorsa dentro e fuori dal carcere? “Non mi ha pesato stare in carcere” ci dice “perché qua sto bene è come star fuori per me. Ti danno da mangiare, da bere, è come un hotel”. Antonio ci lascia senza parole, ma nella nostra intervista ripeterà queste frasi più volte. Ne è convinto o gli servono per accettare la sua situazione? Quel che sembra certo è lui, e molti altri come lui, non ha intenzione di fare nulla per cambiare un destino che sembra inesorabilmente segnato. “Noi siamo abituati a vivere con il cambiamento” ci spiega il direttore dell’IPM Nisida di Napoli Gianluca Guida “perché le generazioni spesso hanno presentato degli elementi di novità ai quali il nostro progetto educativo si è dovuto adeguare. Negli ultimi tempi l'aspetto che sicuramente è prevalso è stata la necessità di dover imparare a lavorare con ragazzi che avevano nella loro storia delle esperienze di violenza agita, di violenza vissuta che non erano stati in grado di rielaborare. Uno dei problemi maggiori in questi anni è stato trovare delle strategie per aiutare i ragazzi a riconoscere questo tratto, questo elemento del loro comportamento e da qui partire per provare a elaborare strategie nuove per modificarlo”. “In quel momento io non pensavo a niente” ci racconta Pietro “perché quando vai a fare una cosa come quelle che facciamo noi, non ci pensi. Dopo ci pensi”. Sembra pentito mentre ci racconta la sua storia. Pietro ha 14 anni, ed è in carcere già da qualche mese. “Sbagliano le persone che hanno 50 anni, che già hanno una famiglia figurati noi ragazzini! Ha sbagliato mio padre che ha 54 anni, figurati se non dobbiamo sbagliare noi che siamo piccolini…” Pietro arriva da una famiglia in cui delinquere è sempre stata la normalità. È difficile in contesti così pensare che ci possa essere una vita e una prospettava diversa. Negli Ipm del Sud la stragrande maggioranza delle storie è legata a disagi famigliari. Ma cambia la modalità di commettere il reato da padre in figli, e cambiano anche le ragioni per cui si commette un reato. Non più per fame, ma per riconoscimento. Non più un semplice furto, ora si usa la violenza. “La maggior parte i ragazzi” spiega ancora Guida, “commettono reati contro il patrimonio e in qualche misura purtroppo sempre crescente anche reati contro la persona. Ma l'elemento che negli ultimi anni si è evidenziato sempre di più è stato proprio questo tratto di violenza agita che ha qualificato il comportamento dei ragazzi. In queste azioni criminali sia nei reati contro il patrimonio che sono diventati reati con l'uso dell'arma, reati con l'uso della violenza, per l'appunto sia proprio nei reati contro la persona. Quindi i ragazzi sono più violenti rispetto a qualche anno fa, sono anche meno consapevoli della loro violenza agita. È come se nel loro comportamento non fossero in grado di riconoscere il disvalore di quell'azione e delle conseguenze che quell'azione determina. Le nuove generazioni sono state educate meno a empatizzare a entrare in relazione emozionale con gli altri e anche con sé stessi. Da un lato i nostri ragazzi si conoscono poco e si amano ancora di meno, dall'altro probabilmente c'è stata una disattenzione da parte degli adulti di riferimento di questi ragazzi”. I ragazzi detenuti nelle carceri del sud appartengono in larga parte a clan o famiglie legati alla criminalità. Entrare ed uscire dalle carceri fa parte di un vissuto che conoscono e riconoscono. Diversamente da chi invece delinque al Nord, come abbiamo visto nelle precedenti puntate. Ma c’è speranza. C’è chi vuole cambiare rotta. Pietro ci accompagna a vedere la mensa e ci prepara il caffè. “Si può cambiare” ci dice con un sorriso “tutto si può cambiare. Abbiamo ancora una vita avanti. Il carcere mi ha aiutato a capire tante cose, quando finisco di scontare le mie pene non torno più qua”.