Stefania Andreoli: “Oggi i genitori sono iper controllanti, serve più fiducia nei figli"

Cronaca
Marianna  Bruschi

Marianna Bruschi

Stefania Andreoli, psicoterapeuta e scrittrice, nel suo ultimo libro “Io, te, l’amore” esplora le relazioni di giovani e adulti. Le generazioni si intrecciano tra responsabilità e ansia, tra aspettative e paure. Quelle raccontate anche nel nostro podcast "Generazione AnZia", arrivato alla 23esima puntata con la storia di Martina

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La chiamiamo “Generazione Ansia”: perché i ragazzi stanno così male?

Definire i ragazzi contemporanei quelli della generazione ansia mi sembra davvero un epiteto molto a fuoco, purtroppo per loro. Quello che stiamo osservando da anni è che mentre gli adulti l’ansia la conoscono da sempre, invece i ragazzi non ne erano mai stati affetti. Avevano altre cose attraverso cui ci segnalavano che non stavano bene, però di ansia non si erano mai ammalati. 

 

Cosa è cambiato e quando è arrivato questo cambiamento?

So che molti riconducono il disagio contemporaneo al post pandemia e ai vari lockdown, ma se vogliamo avere uno sguardo più raffinato dobbiamo datarlo prima: scrissi un libro “Mamma ho l’ansia” e già parlava di questo fenomeno, era il 2015-2016. L’ansia è arrivata nella vita dei giovanissimi quando hanno smesso di trasgredire. Quando l’adolescenza ha rischiato di estinguersi, perché tutti questi figli e figlie sono diventati dei bravi figli e delle brave figlie, il loro modo per significare il malessere è stato quello di ammalarsi. A cosa serviva? A cosa serve? E’ un doloroso autosabotaggio che occorre loro per non realizzare le ambizioni spesso grandiose dei genitori. 

 

"Io, te, l'amore": l'ultimo libro di Stefania Andreoli
"Io, te, l'amore": l'ultimo libro di Stefania Andreoli

Nei racconti dei ragazzi c’è un tema ricorrente: le aspettative troppo elevate. 

Per fare un discorso su chi sono i ragazzi di oggi le parole chiave in effetti sono: aspettativa, performance, risultato e fallimento. E’ questo quadro - in realtà molto faticoso per loro da affrontare - che fa da sfondo e non lo riescono ad evitare. Perché sono figli di famiglie che ti dicono di non aver mai messo aspettative sui loro figli, non si capacitano del perché i ragazzi avvertano questa pressione e danno la colpa alla società. Che ce l’ha eh, perché naturalmente tutto parla di richieste addosso alle vite di questi ragazzi e al loro futuro. 

 

Quali responsabilità della famiglia si aggiungono a quelle della società? 

Me l’ha detto alla perfezione una mia giovane paziente: “Mi hanno fregata, perché se mi avessero chiesto apertamente di essere fatta in un certo modo, se mi avessero domandato di realizzare i loro sogni su di me, io avrei anche potuto dire ‘no non ci sto all’immagine che avete sulla mia vita e sul mio futuro’, ma siccome me l’hanno passato nel latte, sottopelle, non mi hanno mai chiesto niente esplicitamente, non mi hanno obbligata a fare delle scelte ma hanno solo passato il messaggio che volessero esclusivamente il mio bene come faccio a prendermela con loro e a diventare davvero chi sono io e non quella che hanno in mente loro”? Quindi di fatto gli input delle aspettative bersagliano i ragazzi da tutte le parti, sia su un piano macro, sociologico - pensiamo a tutti i confronti che si fanno sui social media tra gli uni e gli altri - sia rispetto al fatto che la famiglia oggi nel tentativo di non avere delle aspettative manda delle aspettative implicite che non si possono contrastare.

 


Ma quindi cosa devono fare i genitori? Essere più presenti? Meno presenti? Oggi c’è un controllo tecnologico elevato, ma conoscono davvero i loro figli?

La grande contraddizione della famiglia contemporanea in effetti è che da un lato è ipertroficamente presente, è ovunque. Dall’altro lato sono genitori sempre meno preparati alla contemporaneità, hanno dovuto impararla e la conoscono con meno dimestichezza dei loro figli, quindi ci si muovono dentro goffamente e ne sono terrorizzati. E’ un grande paradosso: questo è un momento storico, almeno qui dove stiamo noi, più safe di sempre. Siamo dentro ai cellulari di chiunque, dentro ad ogni telecamera, sempre localizzati e sappiamo dove si trova l’altro, quindi lo iper controlliamo. Mettici poi il registro elettronico, metti che attraverso le geolocalizzazioni i genitori possono sapere dove si trova il figlio, non si può mai sgarrare, mai uscire dal radar. Secondo me il genitore oggi se vuole fare un buon lavoro deve prendersi un po’ meno sul serio. 

 

Deve riporre meno aspettative nel presente e nel futuro dei figli?

Deve rinunciare a questa idea che il figlio sia una sua propaggine e un suo risultato, è da lì che nasce l’idea dell'aspettativa. Un bravo figlio oggi determina il successo di tutta la famiglia. No, andrà tanto meglio quanto più quel figlio sarà diverso dai suoi genitori, perché significherà che sarà diventato se stesso e avrà portato nel mondo il suo contributo speciale, creativo, unico e irripetibile. Soprattutto dall’adolescenza in poi l’invito è a fare un passo un po’ più in là, fidandosi di questi ragazzi sui quali abbiamo messo così tante aspettative che se poi non gli consegniamo la loro vita siamo i primi a entrare in contraddizione. 



Un aspetto sottolineato nel suo ultimo libro “Io, te, l’amore” è l’obbligo per i figli di essere sempre sorridenti, l’idea che amare sia sempre uguale a stare bene.

Questo diktat della felicità ormai è diventato imperante, serve a portare avanti questa narrazione - che soprattutto i social media pretendono - di avere delle vite invidiabilissime, sicuramente migliori di quelli che vengono dopo di noi nello scrolling della timeline. Abbiamo sempre molto bisogno di ostentare che vada sempre tutto bene. Allora, per chi fa lo psicanalista come me questo è un meccanismo difensivo che ci deve insospettire, quando hai bisogno di dire che va tutto a gonfie vele tipicamente è il contrario. 

 

 

Questa ostentazione della felicità cosa comporta nell’educazione affettiva dei ragazzi?

Che di fatto facciamo di tutto per risparmiare loro ogni sorta di frustrazione, abbiamo sempre molto più in tasca un “sì” che non un “no”, apparentemente lo facciamo per loro, per il loro bene perché non vogliamo che soffrano, in pratica credo dobbiamo essere intellettualmente onesti e renderci conto che lo facciamo per noi. Perché noi per primi non siamo capaci di far fronte ai loro inciampi e alle loro - metaforicamente - ginocchia sbucciate. 

 

E questo quale effetto produce? 

Si sposta sempre più in là l’incontro con i dolori, con le sofferenze, i fallimenti che ci trovano assolutamente impreparati, non ci fanno avere nessun anticorpo. Ma il fallimento è un grande maestro. La vita è tutta un fallimento, i momenti in cui andiamo bene sono le eccezioni, che devono essere disseminate tra le volte in cui ci proviamo e non ci riusciamo.

 

Nominava i social e la pretesa di una narrazione perfetta. Oggi insieme alle app, alle chat, sono diventati un rifugio per i ragazzi: si fermano lì e non cercano più un contatto, fanno meno sesso.

Sulla questione sesso la doverosa distinzione va operata tra adolescenti e giovani adulti. Nel periodo della pandemia abbiamo rischiato l’estinzione dell’adolescenza. Abbiamo chiesto ai ragazzi di 16-17 anni di chiudersi in casa per salvare la vita ai loro nonni e sono stati ligi al dovere. Questo ci ha gratificati, ma avrebbe dovuto preoccuparci. Secondo le mie osservazioni da un annetto, un annetto e mezzo gli adolescenti, quindi quelli che frequentano la scuola secondaria di secondo grado, stanno rialzando la testa. Ero a un intervento pubblico e il mio relatore mi diceva “dottoressa Andreoli ho visto al bar due sedicenni limonare”. E me lo diceva in effetti come una grande notizia perché i ragazzi di questa età stanno ricominciando a mettere in gioco i corpi. 

 

Invece i ragazzi più grandi nella fascia 20-30 anni?  

Stanno rimanendo al palo, sono loro che non fanno sesso. Ci sono dati europei longitudinali che ci raccontano che un terzo dei ragazzi arriva a 26 anni e mezzo senza ancora avere avuto una relazione sessuale. Ci si tiene alla larga, moltissimi arrivano a 30 anni e non hanno mai dato il primo bacio perché di fatto - per come l’ho letta io - non si fa che parlare del corpo e loro del corpo non vogliono più sentire niente. 

 

 

“Non sanno sentire, pensano troppo”, scrive nel suo libro. Non dovrebbero essere gli adulti quelli più razionali? 

Il grande cambiamento è avvenuto una ventina di anni fa - noi ora ne stiamo guardando gli esiti - quando siamo passati dalla famiglia del padre, dove vigevano le regole, le norme, alla famiglia della madre dove vige il dialogo e l’emotività e lì dentro si è stravolto il mondo. Cosa è successo? Che di fatto questi ragazzi hanno cominciato ad avere dei genitori che erano sempre meno adulti, ai quali hanno dovuto chiedere di farsi passare la palla ed essere loro a cominciare a pensare alle questioni importanti, è per questo che nel libro a un certo punto dico che consegnerei qualunque argomento in agenda ai giovani adulti - la crisi climatica, la questione dei conflitti, le sfide globali, la natalità, il mercato del lavoro -  sarebbero perfettamente in grado di occuparsene perché lo hanno fatto fino ad adesso. Si sono messi nelle condizioni di fare gli adulti al posto nostro, che invece siamo molto adolescenti e molto superficiali nei nostri atteggiamenti. Questo li ha messi nelle condizioni di pensare al posto nostro e quando pensi così tanto lo spazio per il sentire non ce l’hai perché hai paura che se lasci la pancia lavorare prenda il predominio sulla testa e lì rischia di andare tutto a carte quarantotto. 

 

Parlando di corpo il pensiero va ai disturbi alimentari, con numeri in aumento tra i giovanissimi. 

I disturbi del comportamento alimentare sono stati la mia specializzazione 25 anni fa. Spesso se ne parla a sproposito soprattutto rispetto alla diagnosi differenziale: non è detto che se non mangi o se ti abbuffi tu abbia un disturbo del comportamento alimentare, bisogna vedere nel quadro del funzionamento se può essere un sintomo di un quadro sindromico e ci vuole grande mestiere a fare la diagnosi in quel caso. Però il problema con il cibo è trasversale, democraticissimo. C’è un’età della vita nella quale anche senza una diagnosi franca il pasticcio col cibo lo fai ed è sempre più precoce. Adesso abbiamo dei casi studiati sui neonati. Dal punto di vista simbolico il bambino che non prende il seno o il biberon e magari ha 4 mesi è evidentemente dotato di un atteggiamento anoressico, in qualche modo. 

Tra i disturbi dei ragazzi legati al corpo c’è anche l’aumento dei casi di autolesionismo. 

Rispetto all’autolesionismo, c’è una rilettura interessante sull’aumento dei casi: sembra che entrando sempre meno in relazione, essendo sempre più parcellizzati, isolati, sempre più “contro” piuttosto che “insieme” di fatto non ci permettiamo di farci fare niente dall’altro. Si pensi al corpo, al sesso: perché poi anche il sesso è una “invasione”, è un’azione aggressiva rispetto proprio alla sua icononografia, e di fatto finiamo pur di sentire di ferirci da soli, perché non sentire è impossibile a meno che tu non ti ammali, non sia un depresso grave che non sente più niente ma queste sono situazioni estreme, rare. 

 

I ragazzi che praticano autolesionismo spesso dicono di “non soffrire abbastanza”, i tagli sono un modo per manifestare il loro disagio?

Esistono i ragazzi che si tagliano sulla pancia, nell’interno coscia. Però tutti iniziano dalle braccia e quindi di fatto è un modo per far vedere. Il genitore che conosco io tramite i miei pazienti,  che magari arrivano anche in psichiatria con le vene tagliate, li chiamano "graffi". Capisci che a quel punto hai bisogno di alzare il tiro: quello che ti chiedi è dove devo arrivare perché qualcuno si accorga che è agosto e porto le maniche lunghe o che sono in spiaggia e non mi metto in costume? I ragazzi consegnano al corpo un messaggio segreto, e sperano che qualcuno lo raccolga. Per il genitore c’è una sorta di negazione del dolore. Perché il primo che non riesce a entrare in contatto con tutta questa complessità è il papa e la mamma contemporanei.  

 

I giovani sembrano però più capaci di chiedere aiuto.

Questo essere arrivati in massa negli studi dei terapeuti e degli psicologi non è tanto il riflesso che stiamo male, perché che stiamo male non è una novità. Ma ci dice che abbiamo bisogno di andare a pagare qualcuno per farci ascoltare se no non ci considera nessuno. Come se fossimo delle prostitute dell’anima: vai a pagare qualcuno che finalmente ti prende per quello che sei, perché fuori un altro che ti prende intero non lo trovi più, che ti dedica quel tempo, che è serio, che ti usa autenticità, che fuori è introvabile, soprattutto nella generazione degli adulti. I ragazzi ci stanno chiedendo di fare sul serio: “Dimmi qualcosa di vero”.

 

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