Era il 3 febbraio 1998, poco dopo le 15, quando un aereo militare Usa tranciava la corda che teneva salda la cabina con cui 19 persone (e il manovratore) stavano scendendo dalle montagne della val di Fiemme. Si scoprirà che il velivolo era ben sotto l'altezza minima e sopra la velocità massima consentite. Nulla di fatto per le accuse di omicidio a due membri dell'equipaggio, nonostante il loro tentativo di insabbiare le prove
Tre febbraio 1998, 25 anni fa. Diciannove persone entrano in un vagoncino della funivia del Cermis, in località Canavese, nelle Dolomiti trentine della val di Fiemme. Erano passate da poco le 15: la giornata di sci stava volgendo al termine. In aria, quattro Marines americani stavano volando a bordo di un Grumman EA-6B Prowler. Decollati alle 14:36 dalla base di Aviano (Friuli-Venezia Giulia), avrebbero dovuto svolgere un addestramento a bassa quota. I militari avevano portato con sé le macchine fotografiche. Sapevano che sarebbe stato un volo spettacolare, in mezzo alle cime innevate delle montagne italiane. Per Richard Ashby, pilota e comandante del velivolo, sarebbe anche stato l’ultimo viaggio in aria prima di tornare a casa. I piloti non rispettano le leggi italiane né sull’altezza minima consentita, né sulla velocità massima. Alle 15:12 l’aereo trancia un cavo della funivia, colpendolo a una velocità stimata intorno agli 800 chilometri orari e a un’altezza di 100 metri dal suolo. La legge italiana, in quelle zone, non consentiva di scendere sotto i 600 metri. La cabina precipita da un’altezza di 108 metri, in soli sette secondi. Non si salva nessuno: i morti sono 20, compreso il manovratore. La vittima più giovane è il polacco Philip Strzelczyk, di 14 anni. L’aereo scappa e i militari cercano subito di insabbiare quanto successo.
Le indagini
Sugli schermi delle televisioni di tutto il mondo rimbalzano le immagini delle macerie della cabina gialla. A terra c’è anche la fune d’acciaio che reggeva la cabina, spezzata. Gli inquirenti trentini partono subito in direzione Aviano. Nonostante le rimostranze dei Marines, riescono a entrare nell’hangar dove riposano gli aerei. Ne trovano uno in procinto di essere smontato. La scatola nera è sparita. Non ci sono molti dubbi, almeno per i magistrati italiani: la responsabilità è di quell’aereo, come avrebbe poi dimostrato anche la presenza dei resti della fune dell’acciaio all’interno dell’impennaggio di coda. Il presidente Usa Clinton chiama il premier italiano Romano Prodi, che gli prospetta la possibilità di vietare agli americani di utilizzare le basi italiane nell'ambito delle operazioni Nato in corso.
L'assoluzione per omicidio
I pm di Trento hanno tutta l’intenzione di processare l’equipaggio del volo in Italia. Non sarà così, anche perché è in vigore una convenzione sullo status giuridico dei militari NATO che – secondo il gip – accorda la giurisdizione ai tribunali Usa. Solo il capitano Ashby e il navigatore e copilota Joseph Schweitzer compaiono davanti alla Corte marziale di Camp Leujen (Carolina del Nord), che deve decidere se assolverli o condannarli dalle accuse di quelli che in Italia chiamiamo omicidio preterintenzionale e omicidio colposo. In appena un anno la questione sembra chiudersi: entrambi sono assolti dalle accuse di omicidio, anche se viene riconosciuto che l’aereo stava viaggiando troppo veloce e a quota troppo bassa.
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Ostruzione alla giustizia
I giudici decidono però di ritenerli responsabili di ostruzione alla giustizia. Appena si resero conto di cosa era successo, i Marines si precipitarono alla base di Aviano, dove arrivano con un atterraggio di emergenza. Oltre alla scatola nera, Schweitzer aveva distrutto i nastri con le riprese della giornata. Nel 2012, parlò per la prima volta pubblicamente della strage, dicendo di aver fatto sparire i video perché non voleva che i media mandassero in onda “le risate” dell’equipaggio divertito in volo subito prima “del sangue” delle vittime. Schweitzer e Ashby furono rimossi dal servizio. Il pilota fu anche condannato a sei mesi di carcere ma uscì in anticipo per buona condotta.
I risarcimenti
Nell’inverno del 1999, il Senato Usa stanzia 40 milioni di dollari per i risarcimenti ai familiari delle vittime, di varia nazionalità: sette tedeschi, cinque belgi, tre italiani, due polacchi, due austriaci e un olandese. Una commissione del Congresso blocca però l’erogazione dei fondi, che restano in prima battuta a carico della provincia di Trento e del governo italiano. Anni dopo, gli Stati Uniti rimborseranno il 75% dei risarcimenti alle famiglie, stabiliti da un accordo bilaterale a quattro miliardi di lire per ogni vittima.