Vittime di violenze domestiche e poi vittime delle istituzioni. Le donne maltrattate non sempre trovano ascolto e protezione finendo così per essere vittime una seconda volta. Accade anche attraverso i loro figli, contesi, minacciati, a volte uccisi per vendetta. Per monitorare l’impatto della vittimizzazione secondaria l’associazione D.i.Re ha costituito un osservatorio
La paura di non essere credute, quella di essere valutate “non collaborative” dai consulenti tecnici d’ufficio, il terrore che i figli vengano affidati ai servizi sociali o messi in istituto. Passano anche attraverso queste angosce i sentimenti di una donna vittima di violenza nel momento in cui decide di separarsi e di denunciare il proprio aguzzino. Nelle istituzioni cerca protezione e risposte eppure ancora troppo spesso non le trova. Si chiama vittimizzazione secondaria e riguarda quelle distorsioni che si verificano nel sistema giudiziario italiano e non solo che portano le donne che hanno subito violenza a essere penalizzate una seconda volta, in questo caso dalle istituzioni stesse.
La vittimizzazione secondaria nei tribunali
Lo sa bene Elisabetta Canevini, giudice della IX sezione penale del Tribunale di Milano, una delle due specializzate nella trattazione di reati contro i soggetti deboli. Ci incontriamo nel suo ufficio al piano terra del palazzo di giustizia, una stanza piuttosto buia ma abbellita da alcune piante di cactus (“è il soprannome che mi hanno dato quando ancora studiavo, ma a me piacciono i cactus” ci confessa con un mezzo sorriso). Le piante che la circondano probabilmente dicono molto della tenacia, l’abnegazione e forse anche del sacrificio che il lavoro che è chiamata a svolgere le richiedono. “Bisogna smetterla di mettere quel segno meno davanti alla parola delle donne – ci dice. Nella materia di cui mi occupo serve formazione, serve specializzazione che è tutt’altro che scontata. C'è uno statuto della persona offesa da reato che ha una declinazione molto concreta: nel processo deve essere garantita da qualunque forma di pregiudizio”. La formazione dei giudici e degli operatori coinvolti nel trattare casi di violenza su soggetti deboli è la chiave. “C'è ancora moltissimo da fare da questo punto di vista, sia il Csm che il legislatore ci impongono di lavorare costruendo la nostra specializzazione ma purtroppo il territorio italiano è un po' a macchia di leopardo. Le procure della Repubblica ormai si sono attrezzate da tempo e abbiamo l'89% degli uffici specializzati mentre per quanto riguarda il dibattimento penale siamo al 24%, cifra che comunque si è incrementata negli ultimi anni” sottolinea la giudice. Eppure accade ancora troppo spesso che “non si riconoscano i segnali di pericolo in una relazione che non è solo conflittuale ma aggressiva, anche in relazione all’affidamento dei figli. Nel settore civile in particolare questa specializzazione deve ancora venire. Se parliamo del 24% dei giudici specializzati nel dibattimento penale che sono chiamati a occuparsi direttamente dei casi di maltrattamenti in famiglia e violenze sessuali, altrettanto non si può dire dei giudici civili che si occupano della separazione e del divorzio”. Il risultato è che spesso la violenza domestica non viene riconosciuta.
Non riconoscere la violenza: le conseguenze
A pagarne le conseguenze spesso sono i bambini. Proprio nei tribunali civili e per i minori, nonostante vengano depositate denunce, referti, misure cautelari o persino sentenze di condanna, ancora troppe volte la violenza domestica di genere non viene considerata rilevante nella determinazione dei rapporti genitoriali, in contrasto con quanto previsto dalla Convenzione di Istanbul. E questo vale anche e soprattutto nei casi di affidamento di minori. Da una raccolta dati delle avvocate che collaborano con i centri antiviolenza della rete D.i.re, Donne in rete contro la violenza, è emerso che in presenza di minori nell’88,9% dei casi viene disposto l’affidamento condiviso tra i genitori, anche quello maltrattante.
L’osservatorio della rete D.i.Re
Per questa ragione D.i.Re ha costituito un osservatorio che ha l’obiettivo di “monitorare l’impatto delle distorsioni che si verificano nel sistema giudiziario italiano e che portano le donne che hanno subito violenza a essere penalizzate una seconda volta, questa volta proprio da parte delle istituzioni” ci spiega Antonella Veltri, presidente di D.i.Re, la rete nazionale dei centri antiviolenza. “Per liberarsi dai maltrattanti e porre fine alla violenza domestica, alla violenza assistita da parte dei minori, le donne non possono prescindere dal passaggio attraverso i tribunali civili e per i minorenni per definire la separazione e l’affidamento – continua Veltri - ed è proprio in questi contesti che le avvocate dei centri antiviolenza della rete D.i.Re osservano da anni come la violenza non venga riconosciuta o venga sottovalutata. Le donne sono sottoposte a Ctu che ne criticano la capacità genitoriale e i bambini sono affidati ai servizi sociali o collocati in istituto per rieducarli alla relazione con il padre anche se ne hanno paura e non vogliono vederlo”. L’osservatorio è composto da 30 esperte con profili diversi che si occuperanno di “condurre indagini qualitative e quantitative tra i centri antiviolenza per misurare l’impatto e l’estensione della vittimizzazione secondaria e promuovere azioni per modificare una cultura giudiziaria intrisa di stereotipi e pregiudizi che spesso rende la fuoriuscita dalla violenza un nuovo calvario”.
Figlicidio come estrema violenza sulla donna: una storia
La vittimizzazione secondaria a cui può essere sottoposta una donna maltrattata spesso coinvolge dunque anche i figli, contesi, minacciati e che in alcuni casi rischiano di diventare uno strumento per esercitare violenza sulle madri. Fino all’estrema conseguenza: quella in cui per punire una donna, un uomo maltrattante arriva a uccidere il proprio figlio. “Il figlicidio è un femminicidio in cui la donna resta in vita, perché il dolore più grande che si può infliggere a una madre è quello di portarle via il suo bambino, a volte, come nel mio caso, per sempre”. Antonella Penati convive con il suo dolore da ormai 12 anni, da quel 25 febbraio 2009, quando il suo Federico, che aveva 8 anni e mezzo, fu ucciso dall’ex compagno e padre del bambino con 37 coltellate durante un incontro cosiddetto protetto negli uffici della Asl di San Donato Milanese. Il bambino morì dopo 57 minuti di agonia. “Mio figlio è stato consegnato al suo massacratore, gli ha sparato anche un colpo di pistola che l’ha preso solo di striscio al collo prima di suicidarsi” racconta Antonella come se quel giorno fosse ancora oggi. “Lui ci molestava tutti i giorni sotto casa, davanti a scuola, davanti all'ufficio. Ho fatto otto denunce negli anni, più due direttamente in procura: ma non vennero ascoltate. Federico aveva molta paura, non voleva vederlo, non lo riconosceva più come padre, era devastato ogni volta che doveva incontrarlo negli spazi neutri dei servizi territoriali; faceva la pipì a letto, vomitava, non lo chiamava più papà, lo definiva un mostro”. Per la morte di Federico nessuno è stato ritenuto responsabile, né i servizi sociali che lo accompagnavano a quegli incontri né lo Stato italiano, assolto dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo a cui si era appellata Antonella. “Io credo che ogni bambino non abbia il dovere di avere il padre, io credo che ogni bambino abbia piuttosto il diritto di avere dei buoni genitori – ragiona Antonella. Quando il padre o la madre sono persone violente credo che la bigenitorialità non debba essere difesa a ogni costo, il bambino deve essere messo in protezione e deve stare con il genitore accudente e protettivo, sia esso il padre o la madre”.
La proposta di legge
Lo scorso ottobre, grazie anche ad Antonella, che nel frattempo è diventata un’attivista e ha fondato l’associazione “Federico nel cuore onlus”, in Senato è stato depositato un disegno di legge che introduce l'articolo 317 ter nel codice civile, che tra le altre disposizioni, prevede che in caso di violenza domestica di genere al genitore maltrattante venga negato anche il diritto di visita al minore.