Nella sesta puntata si parla di digital life, per capire anche come sarà la "nuova normalità" sui social e nel web
Torna l'appuntamento di Sky Tg24 "Idee per il dopo", approfondimento dedicato alla comprensione del cambiamento nell'era post-Covid (GUARDA LA PUNTATA PRECEDENTE: 1a PARTE E 2a PARTE - QUI TUTTI I VIDEO DELLE PUNTATE). Il programma torna con qualche novità. Il nuovo format prevede un singolo tema per ogni appuntamento, analizzato in profondità.
Idee per la nuova digital life
Tema di questa puntata la vita digitale. La necessità di distanziamento sociale ha spostato il baricentro dell’equilibrio tra vita analogica e vita digitale. Le interazioni umane virtuali o mediate dalla tecnologia sono aumentate e sembra un trend destinato a consolidarsi. Quali saranno gli effetti su libertà, sicurezza, lavoro, privacy e legami delle persone? Ne discutono in studio con Giuseppe De Bellis Amy C. Edmondson, docente della Harvard Business School; Simon Kuper, editorialista del Financial Times e Luciano Floridi, docente di Etica dell’Informazione dell’Università di Oxford.
Giuseppe De Bellis: Con questa puntata comincia il secondo tempo di Idee per il dopo, nelle prime cinque puntate abbiamo affrontato in maniera trasversale i temi che cambieranno la nostra vita nell'era della convivenza con il coronavirus. Da oggi invece affrontiamo un tema per ogni puntata e partiamo dalla digital life: tra privacy, paure, opportunità e diritti. Benvenuti alla sesta puntata di Idee per il dopo, questa sera sono con noi: Simon Kuper, Luciano Floridi e Amy Edmondson. Buonasera e benvenuti a questa sesta puntata di Idee per il dopo in cui parleremo di digital life.
Professor Floridi, parto da lei perché lei dirige il Digital Ethics Lab dell'Università di Oxford e aha coniato il termine “onlife”, ovvero quella vita che sta a metà, al confine, tra la vita reale e la vita digitale. La prima cosa che le voglio chiedere è: secondo lei, in questo momento, questo confine è stato superato o c'è ancora?
Luciano Floridi: In realtà ci siamo spostati tutti da una parte, cioè verso il digitale: è come se cercando l'equilibrio avessimo adesso necessariamente esagerato con una vita distaccata, digitale, online. Allora, quando si parla di onlife, e sono contento di vedere questa parola girare un po' per il mondo, è l'idea in realtà di combinare tutt'e due: cioè di unire sia l'online, sia l'offline, sia il digitale, sia l'analogico a esempio nello smartworking. Non nella telepresenza soltanto a casa, facendo a casa quello che dovrei fare in ufficio ma in realtà combinando al meglio tutte le componenti. Ecco, oggi viviamo molto online, poco onlife. Speriamo che il recupero dopo la pandemia sia veramente onlife.
Giuseppe De Bellis: Kuper, lei nelle ultime settimane ha scritto diversi articoli nella sua rubrica settimanale sul Financial Times, sulla digitalizzazione e sullo spostamento sulla vita digitale di cui parlava in questo momento Floridi. Le voglio chiedere: questo spostamento, secondo lei, sarà uno spostamento irreversibile oppure il lockdown che ha comunque reso, il contatto sociale, il contatto umano, una necessità, perché eravamo tutti distanti, quindi ne sentivamo il bisogno. Anche la vità analogica tornerà a prendere un po' piede nelle nostre vite?
Simon Kuper: Sono d'accordo che il futuro sarà più online, vale a dire che troveremo un equilibrio, che sarà diverso da quello che esisteva prima della pandemia. Le persone si sono sempre recate in ufficio cinque giorni a settimana, ma non credo che torneremo a questo. Costa alle aziende in termini di soldi e spazi, i dipendenti perdono tempo negli spostamenti ma ovviamente non si può lavorare da casa tutti i giorni. Immagino si lavorerà da casa quattro giorni, mentre il quinto si andrà in ufficio o in un bar, o in una sala riunioni, o in uno spazio apposito per rincontrare i colleghi, discutere i vari progetti, creare legami personali ma l'equilibrio sarà molto diverso dal passato. Sarà molto più spostato verso il digitale di quanto non lo sia mai stato.
Giuseppe De Bellis: Professoressa Edmondson, lei insegna leadership nella Harvard Business School. Ha coniato il termine, e lavora tanto, sulla teoria della sicurezza psicologica al lavoro. Come si collega la sicurezza psicologica con l'era più digitale che stiamo vivendo?
Amy C. Edmondson: La sicurezza psicologica è sia più facile che difficile in questa nuova era digitale, è più complicata in quanto le persone sono generalmente molto più ansiose riguardo il futuro e quanto la situazione potrebbe andare avanti e quindi, qualunque risposta ricevano li preoccupa. È più facile perché siamo più consapevoli di queste paure, siamo tutti più capaci e volenterosi di parlare di quello che affrontiamo e di quello che ci preoccupa. Una paura condivisa può essere un'importante sorgente di innovazione e cambiamento. Dei timori personali, nascosti o isolati, sono molto più problematici per il lavoro.
Giuseppe De Bellis: Floridi torno da lei per affrontare l'argomento degli argomenti in questo momento, ovvero quello del tracciamento di tutti noi, tramite le app, di cui tutti i paesi si stanno dotando e di cui tanto si parla. La prima cosa che le voglio chiedere su questo argomento è la seguente: se sembra che dal punto di vista tecnologico siamo molto avanti, dal punto normativo ed etico, come siamo messi?
Luciano Floridi: La ringrazio per questa domanda perché mi trova particolarmente sensibile in questi giorni, io sono uno dei membri della commissione etica del governo britannico, per l'app qui in Gran Bretagna e ovviamente questo divario tra tecnologia ed etica e legge, è vissuto in maniera molto viva e anche molto rapida. Allora, io sintetizzerei la risposta nella seguente visione: la tecnologia promette molto, riesce a realizzare quello che promette soltanto se il quadro normati-etico è all'altezza. A esempio, dovremmo scaricare questa app in milioni e milioni di persone, questo avverrà soltanto se c'è un altissimo livello di fiducia in chi gestisce queste tecnologie. La fiducia è una questione etica, non soltanto normativa. Se avremo l'etica e il sistema normativo all'altezza delle nostre tecnologie, le tecnologie funzioneranno. Altrimenti avremo fatto un flop.
Giuseppe De Bellis: Kuper, secondo lei questo tema, ovvero la volontarietà diffusa nell'accettare l'utilizzo di questa app, sarà un problema per diversi governi oppure lei pensa che saranno capaci di convincere i cittadini ad avere fiducia?
Simon Kuper: C'è sempre un problema di fiducia, soprattutto in Paesi come l'Italia e la Francia, e sono convinto che sarà difficile che le persone accettino l'app e purtroppo molti di più rifiuteranno il vaccino, se mai ne troveremo uno. Una fetta molto grande della popolazione non si fiderà, si moltiplicheranno le teorie complottiste e questo significa che, anche con il vaccino, non è detto che finisca e questo è un problema di fiducia.
Giuseppe De Bellis: Edmondson, riguardo alla leadership, anche sul tema dell'app la leadership è fondamentale, nel senso che creare fiducia nei cittadini è una delle grandi capacità di un leader. Secondo lei, parlando di governi, ma anche di aziende, in questo momento, rispetto alla digital life la fiducia delle persone nei confronti dei leader, com'è?
Amy C. Edmondson: I leader di cui ci fidiamo sono quelli che ci sembrano più sinceri con noi, parlano oggettivamente, ci dicono quello che sanno e quello che non sanno e in questo momento, che risulta così pieno di problemi, ci danno una base razionale a cui aggrapparci. Ci fanno sapere che sono convinti che siamo in grado di superare le sfide che si presentano davanti ai nostri occhi e lo fanno con un senso di apprensione ed empatia riguardo quello che dobbiamo affrontare. Quindi: oggettività, speranza e comprensione, sono questi gli ingredienti per instaurare la fiducia e per aiutarci ad affrontare alcune delle cose che ci aspettano e che saremo obbligati a fare in modo che la società riesca a superare questa pandemia.
Giuseppe De Bellis: Floridi, sto sempre su questo argomento, perché come dicevo prima è il grande argomento, lei ha detto che una qualunque app che ciascun governo possa utilizzare deve far parte di una strategia più ampia. Che cos'è questa strategia?
Luciano Floridi: Mi dispiace ma la mia risposta sarà un po' banale, nel senso che queste app sono state presentate da alcuni governi e alcuni politici come assolutamente necessarie, la soluzione, quello che ci salverà, quello che ci porterà ad appiattire la curva e a entrare in una seconda fase: non è vero. Quello che queste app possono fare è dare una mano, a volte anche piccola, ma buona e importante, una strategia complessa che è fatto di medicina e misure sociali, come abbiamo visto intorno a noi. Allora, rispetto all'identificazione di un vaccino o alle misure sociali di distanza e di pulizia, di attenzione agli incontri, una app che funziona-non funziona a volte, soltanto in alcuni contesti, con una minima parte della popolazione, ecco può aiutare ma non mettiamo su questa app delle speranze che sono del tutto ingiustificate. Saranno la medicina e le misure sociali che potranno fare la differenza.
Giuseppe De Bellis: Kuper, secondo lei il lavoro che sulle app hanno fatto alcuni dei “tech giants”, deve farci preoccupare perché mettiamo ancora di più i nostri dati nelle mani di queste aziende oppure dobbiamo stare tranquilli.
Simon Kuper: È un po' tardi per quello, praticamente tutti stiamo già condividendo i nostri dati, specialmente con Google e Facebook, perciò non penso che l'app farà la differenza, infatti sono convinto che sarà l'unica che verrà monitorata dai governi e su cui i parlamenti metteranno delle regole. Riguardo alla perdita della privacy, è una battaglia persa 15 anni fa.
Giuseppe De Bellis: Edmondson, con lei voglio tornare sull'ambiente di lavoro, sugli uffici, sul nostro futuro, in relazione alla digital life. Secondo lei, questa digitalizzazione, che abbiamo vissuto anche nostro malgrado in maniera così prorompente, è una digitalizzazione della quale le aziende e il lavoratori sono realmente pronti?
Amy C. Edmondson: Mi trovo d'accordo con una risposta precedente che andando avanti avremo un mix, almeno spero che ci sia perché alcune attività possono essere svolte tranquillamente da casa e a distanza e da soli, mentre per altre non si può. Attività come i brainstorming e le discussioni con le altre persone, su argomenti difficili, sono più produttive faccia a faccia. Quindi stiamo sperimentando qualcosa di nuovo, anche se non è questo l'aspetto di lavoro digitalizzato perché abbiamo i bambini a casa e altre difficoltà e distrazioni e non può essere considerata una prova ideale di come sarebbe. Ma penso che quello che bisogna fare è trovare il modo di identificare i punti di forza e le opportunità del lavoro a distanza, è altrettanto importante capire quali possono beneficiare della collaborazione diretta in un posto di lavoro e da qui progettare il lavoro del futuro.
Giuseppe De Bellis: Floridi, torno da lei per fare una domanda simile a quella che ho fatto a Kuper sui tech giants. Kuper dice “è un po' tardi” ma i cittadini rispetto a questa mole di dati che hanno consegnato nel corso degli anni ai tech giants, e all'utilizzo di questi stessi dati possono fare i governi. Possono fare qualcosa per proteggersi autonomamente oppure devono soltanto avere fiducia come diceva lei prima?
Luciano Floridi: In un momento di crisi come questo, dobbiamo essere realisti. Siamo in questo angolo, come si direbbe in inglese, ed è inutile cominciare a fare programmi ora per qualcosa che dobbiamo accettare. Tra i tech giants da una parte e i governi dall'altra ci troviamo un po' schiacciati e inevitabilmente saremo noi forse a pagare un po' il costo di questa situazione. Quello che vorrei, i cittadini, un po' ovunque, facessero la società civile e pensare a quello che vogliamo ottenere appena usciamo da questa crisi. Non siamo in un posto in cui ci piace essere e quindi, quando usciremo dalla crisi, per favore cambiamo le regole del gioco e facciamo sì che la fiducia che diamo allo stato, quando vogliamo, e alle aziende, quando vogliamo, sia bilanciata l'una nei confronti dell'altra.
Giuseppe De Bellis: Kuper, abbiamo sentito prima Edmondson citare i nostri ragazzi, che facevano lezione online, voglio spostarmi sui ragazzi un po' più grandi ovvero quelli che vanno all'università. Probabilmente nelle prossime generazioni, a cominciare già da questa, nella prossima stagione universitaria le lezioni saranno molto di più spostate sull'online. Secondo lei che cosa si perde per il futuro di queste generazioni? Se si perde qualcosa.
Simon Kuper: È sicuramente meno proficuo ricevere la propria educazione online, come è stato in questi mesi e come sarà anche l'anno prossimo. Di persona c'è una lista infinita di vantaggi, non è perfetta, molti docenti sono pessimi dal vivo, però nell'università ideale le lezioni si farebbero di persona. Quello che non viene considerato sono le centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo, nei paesi più poveri, persone che non hanno ancora 18 anni, persone che non hanno il tempo o i soldi per stare quattro anni all'università, che vorrebbero disperatamente quell'educazione, che vorrebbero usarla per cambiare vita, per cambiare modo di pensare, per aumentare il proprio reddito. Per le persone di tutte le età in Africa, a esempio, l'eduzione online sarebbe un passo avanti rispetto a quella che hanno adesso, che in generale non esiste. La stragrande maggioranza della gente, nei paesi in via di sviluppo, non ha mai passato un giorno all'università, anche nei paesi occidentali ci sono molte persone che non sono andate all'università a 18 anni. Dobbiamo dargli la possibilità e non dovrebbe essere completamente online, solo in parte, in modo da poter crescere i figli, lavorare e poter frequentare le lezioni online anche dopo i 40 anni e poi per completare basterebbe un paio di settimane all'università. Questa educazione a vita di cui si parla da decenni e che non è mai stata messa in pratica, è assente perché non è stata sviluppata a dovere. L'online ci mostra come si può fare.
Giuseppe De Bellis: Edmondson vedevo che annuiva alla risposta di Kuper, allora le chiedo: dal punto di vista di un professore di un ateneo così importante come Harvard, questa ipotesi di una massiccia educazione che arriva online, come viene vissuta?
Amy C. Edmondson: Non potrei essere più d'accordo con il profossor Kuper, ha spiegato alla perfezione il motivo per cui è ancora ottimale che le persone stiano insieme all'università e credo che gran parte dell'educazione riguardi l'apprendimento dell'intelligenza emotiva, imparando come essere individui saggi, consapevoli e responsabili, in mezzo ad altri individui consapevoli e responsabili. Ed è un traguardo difficile da raggiungere attraverso un piccolo schermo. Posso imparare l'aspetto matematico magari posso imparare cosa vuol dire essere una persona fra tante altra che collaborano in massa per risolvere alcune delle problematiche più impellenti della società. E, purtroppo, gran parte di quella introspezione, di quelli sviluppo, di quella maturità deve emergere dalla vicinanza con altre persone. Bisogna imparare a leggere gli indizi velati nelle relazioni interpersonali, quindi sì questa è una opportunità per cogliere sul serio il break point che ci viene offerto, per capire come poter espandere le risorse a disposizione e fornirle a molte più persone e a situazioni diverse.
Giuseppe De Bellis: Kuper, torno da lei per parlare di un altro argomento secondo me molto centrale nel dibattito di questi giorni, In realtà lo è da anni, però si è acuito per effetto del lockdown ed è quello dei social media. Con le città chiuse, il traffico dei social media è aumentato ancora di più rispetto al passato. Allora le chiedo: è migliorato il mondo dei social media o è ancora oggi il terreno soprattutto per fake news e haters?
Simon Kuper: Le aziende dei social media sono molto più attive di prima nel cercare di bloccare le fake news. Per esempio Twitter ha finalmente censurato Donald Trump, e si sta impegnando a contrastare anche le teorie complottiste riguardo il coronavirus. È tardi ma è un bene che lo facciano e credo che si stia verificando il lato positivo dei social media. Di solito si fanno notare quelli creativi ma ci permettono di fare dei dibattiti molto intelligenti, si possono incontrare e ascoltare persone interessanti di tutto il mondo e dopo due mesi in cui non si è potuto incontrare nessuno, molte persone, soprattutto, chi vive da solo, sono state almeno in grado di comunicare, di vivere un senso di comunità, grazie ai social. E considerata la crisi della solitudine sono delle possibili soluzioni. Mi hanno detto che le persone più isolate sono gli anziani che non sono sui social media e su Facebook, quindi dobbiamo pensare a come trasformare i social in qualcosa di benefico piuttosto che preoccuparci solo degli aspetti negativi.
Giuseppe De Bellis: Floridi, quello che diceva Kuper mi ricorda molto l'online society, le chiedo: secondo lei il nostro utilizzo dei social media è irreversibile oppure la riscoperta del contatto umano, di cui abbiamo parlato in diverse risposte, tornerà in maniera preponderante?
Luciano Floridi: Penso che sarà in entrambi i casi una combinazione dei due, noi oggi parliamo di distanza sociale quando dovremmo in realtà parlare di distanza fisica. La distanza sociale in realtà è diminuita grazie proprio i nuovi modi digitali. Ci sentiamo di più, ci preoccupiamo un po' di più, l'uno dell'altra. Io sono sicuro che appena usciremo dalla pandemia butteremo il computer fuori dalla finestra per un paio di mesi. Non ne potremo più, giustamente, poi però lo andremo a riprendere perché per organizzare la festa lo facciamo su Facebook e poi ci vediamo, per vederci in birreria magari un Tweet fa comodo a tutti, insomma su whatsapp. Questa combinazione dei due, io vorrei tanto che si vedere come una win-win situation piuttosto che una cosa o l'uno o l'altro come se fossero nemici. Sono amici e possono combinare insieme.
Giuseppe De Bellis: Edmodson, in questo periodo, periodo così difficile, il business digitale dev'essere molto agile e veloce, le chiedo: la pandemia ha accelerato le idee che alcune aziende avevano di trasformazione oppure le ha semplicemente congelate per un periodo per portarle poi a migliorarle nel futuro?
Amy C. Edmondson: Penso che la pandemia abbia decisamente velocizzato il passaggio a stili di lavoro più agili. Se mi avessero detto che nel giro di una settimana la facoltà di Economia di Harvard avrebbe spostato ogni singolo corso online, senza bisogno di frequentare di persona e senza tralasciare alcun corso, l'avrei ritenuto impossibile, perché ci preoccupiamo troppo della nostra storia e tutto dev'essere perfetto prima di decidere di farlo. E invece abbiamo fatto questo passo e questo vale per molte delle aziende di tutto il mondo con cui ho avuto contatti. Non pensavano di essere in grado di riuscirci ma hanno dovuto farlo e questo modo di operare è diventato più agile. Si sono detti “sembra funzionare, proviamoci! Non funziona alla perfezione, aggiustiamo il tiro e continuiamo a provare e ad andare avanti”. Dimenticheremo di aver avuto questa capacità in futuro? Spero di no.
Giuseppe De Bellis: Floridi, sto sulla stessa domanda per lei, chiedendole di fare un altro piccolo passo, se ci riusciamo, nel capire se i cambiamenti che erano già in atto, per effetto della tecnologia ma non solo, sono gli stessi che ci saranno nel futuro, oppure si cambierà strada, si andrà in un'altra direzione. Cioè la pandemia fa cambiare l'idea di futuro?
Luciano Floridi: Fa cambiare un po' l'idea del futuro, la pandemia ha fatto tre cose, diciamo così, ha polarizzato quindi i vincitori vincono di più, i perdenti perdono ancora di più. Ha reso ancora più grandi alcuni fenomeni come a esempio quello del pagamento digitale: oggi in Italia il pagamento digitale è diventano lo standard, non lo era fino a poco tempo fa, ma ha fatto vedere anche delle novità e io sono concorde con la collega di Harvard. Oggi molte cose che abbiamo provato, ricordiamocele che è possibile farle e cerchiamo di imparare almeno questa lezione.
Giuseppe De Bellis: Kuper, lei ha scritto, qualche tempo fa, un bellissimo articolo su Parigi, la città in cui vive e su come sarà cambiata per sempre dopo quest'esperienza. Perché cambierà per sempre Parigi?
Simon Kuper: A Parigi la gente vive in piccoli appartamenti e passa molto tempo fuori casa, tra bar, ristoranti, concerti, cinema, musei e piazze. A Parigi conta stare insieme, ma adesso è tutto chiuso, potremmo riavere la nostra città se si trovasse in fretta un vaccino ma se ci volessero tre, quattro anni, non potrebbe più tornare com'era prima perché non avrebbe senso stare a Parigi se non si possono usare gli spazi comuni. Qui non è come abitare a Dallas, dove si può fare il barbecue in giardino e stare all'aperto. A Parigi nessuno ha spazio, quindi il senso di vivere in questa città, al momento, è sparito. Un'altra cosa che è cambiata, è che la gente spende molto per questi piccoli appartamenti, comprare un quadrilocale qui costa come un palazzo al sud o in altre zone della Francia. Ora che quella categoria di utenti lavora su Zoom, perché non andare a vivere in quei palazzi? Soprattutto se non ci si può godere la città, quindi credo che l'emigrazione da Parigi sia naturale anche se i bar e i ristoranti riaprissero domani. Perché chi lavora nel marketing e gli avvocati penseranno “se devo venire a Parigi una volta a settimana, posso prendere il treno e passare gli altri giorni nel mio palazzo” quindi il carattere della città è già cambiato, anche se domani riaprirà tutto. Sospetto che non si tornerà indietro almeno per un un paio d'anni.
Giuseppe De Bellis: Edmondson, torno sul tema delle aziende e del lavoro, per chiederle se la tecnologia è più importante per il futuro rispetto al fattore umano.
Amy C. Edmondson: Non credo che si possano separare. Non si possono mette online e offline persone ed esperienze, la tecnologia e il fattore umano saranno sempre più importanti in futuro, la vera domanda è come gli individui interagiranno con la tecnologia, come il nostro bisogno di conoscenza e di collettività, e la nostra capacità di creare, verranno influenzati dall'imperfezione di questi due fattori.
Giuseppe De Bellis: Floridi, spostandoci un po' su un altro argomento però è molto interessante una sua frase, del suo ultimo libro, in cui dice “servono idee ingenue per migliorare la politica”. Allora, quali sono queste idee ingenue e perché sono ingenue?
Luciano Floridi: Ne menziono una, visto che il libro ne contiene diverse. Sono ingenue perché decidono di svuotare la riflessione dalla furbizia e allora chi parla di ingenuità oggi o la vede una cosa di chi non capisce o di chi è troppo furbo, invece queste sono idee da filosofo che avendo imparato qualcosa poi cerca di dimenticarlo. Ne menziono una perché poi è quella più presente nel secondo articolo della nostra costituzione: la solidarietà. Oggi parlare di solidarietà sembra un po' ingenuo, un po' da “ma questo poverino non capisce”, in realtà sarà una delle fondamentali variabili per ripartire domani. Allora, idee ingenue è per chi è un po' stanco della furbizia della politica.
Giuseppe De Bellis: Parlano della politica, quindi dei leader, Kuper, lei ha scritto che in questo momento i leader devono essere trasparenti. Secondo lei, lo sono davvero?
Simon Kuper: Ci sono molti leader diversi e c'è un motivo se non sono trasparenti, non vuol dire che siano criminali, è solo che vengono scrutinati e attaccati ogni volta che dicono qualcosa e vengono fraintesi. Ora, è chiaro che sarebbe folle per un leader scegliere la trasparenza, io non lo farei, non direi ai cittadini “non so che fare, potrei essere la scelta sbagliata e probabilmente non funzionerà. Ma devo provarci altrimenti non ho possibilità di essere rieletto”. Si trovano in una situazione in cui la trasparenza di cui stiamo parlando è impossibile da attuare.
Giuseppe De Bellis: Edmondson vengo da lei, stando sul tema della leadership e le chiedo: in questo momento la tecnologia aiuta o no la trasparenza di un leader?
Amy C. Edmondson: Abbiamo visto che molti leader sono indipendenti dalla tecnologia, la tecnologia sicuramente facilità la diffusione dei messaggi, è un modo per farli arrivare lontano velocemente e regolarmente, ma non garantisce il successo. Se osserviamo sia le aziende che i Paesi, si notano grandi differenze nei leader che hanno deciso di accogliere la trasparenza, quindi non penso che la tecnologia sia la variabile chiave.
Giuseppe De Bellis: Floridi, qui nel nostro studio abbiamo alcune parole che ruotano attorno alla digital life: privacy, libertà, condivisione, sicurezza, lavoro e legami. Qual è, secondo lei, la più importante di queste?
Luciano Floridi: Per domani condivisione, cioè fare le cose insieme perché abbiamo un progetto moderno individualista e dobbiamo costruirne uno altrettanto importante, la seconda gamba di condivisione.
Giuseppe De Bellis: Kuper, secondo lei qual è la parola più importante tra queste?
Simon Kuper: Sono d'accordo sulla condivisione perché penso che la visione multiframmentata di chi siamo, di cos'è l'umanità e cioè esseri egoisti che cercano di ottimizzare l'interesse personale e si ingegnano per far progredire questo interesse personale che era alla base delle politiche di Reagan e Tatcher. Penso che questa visione abbia perso aderenza ora, il pubblico non è più interessato a questo punto di vista ma mi sembra che richieda a gran voce un senso di comunione, che sia a un micro livello, per esempio: siamo tutti italiani o siamo tutti bianchi, che è la visione nazionalista, o a un livello più egualitario di comunità, che accolga persone di tutti i colori e riduca il divario economico. Negli Stati Uniti, si è visto che anche la maggioranza dei sostenitori repubblicani vuole tassare di più i ricchi, penso ci sia una forte domanda per quel senso di solidarietà che è mancato nella politica degli ultimi 30-40 anni e per quei politici che la offrono credo che avranno successo. Ed è per questo che Joe Biden ha presentato un programma molto di sinistra, rispetto ai candidati democratici degli ultimi decenni, incluso lui stesso.
Giuseppe De Bellis: Edmondson, secondo lei invece tra privacy, libertà, condivisione, sicurezza, lavoro e legami, qual è la parola chiave, se c'è?
Amy C. Edmondson: Io direi sicurezza, anche se sono d'accordo con i due commenti precedenti, perché le persone si trovano in una condizione di paura e non sono in grado di esprimere la condivisione, di provare solidarietà per gli altri esseri umani. E senza la sicurezza psicologica, le persone non riusciranno a creare, a connettere, a rendersi conto delle promesse reali di questa società diversa.
Giuseppe De Bellis: Un'altra domanda per tutti e tre, parto da Floridi ed è legata alla guerra tecnologica che era già in corso prima dell'inizio dell'era Covid-19, una guerra prevalentemente combattuta tra Stati Uniti e Cina, su alcuni temi fondamentali, per esempio il 5G. Secondo lei, continuerà a essere identica all'era per Covid o cambierà questa rivalità, si rafforzerà, diventerà diversa, andrà su altri temi oppure sarà sempre la stessa?
Luciano Floridi: Penso che in parte si rafforzerà perché le nuove tecnologie comporteranno nuove polarizzazioni tra Cina e Stati Uniti, ma credo che ci sarà anche un terzo elemento che si chiama Europa o diversi Paesei, si pensi al Canada, all'Australia, al Giappone, dove una ulteriore componente entrerà a far parte del gioco che è quella delle regole, delle regolamentazioni. Chi fa le regole del gioco, normalmente, determina anche a che gioco si gioca.
Giuseppe De Bellis: Kuper, secondo lei?
Simon Kuper: Credo che dipenda da chi vincerà le presidenziali in America. Abbiamo visto che Donald Trump ha preso le redini dell'economia americana ma ora che è in calo, incolpa la Cina del Covid e del collasso economico, quindi ha reso la Cina il capro espiratorio. Sono fiducioso che se Biden vincerà le elezioni, sceglierà di tornare a un approccio multi nazionale, promuoverà il commercio internazionale e preferirà il dialogo con la Cina agli scontro del passato, quindi credo che la domanda sia: è Trump l'uomo chiave?
Giuseppe De Bellis: Edmondson, secondo lei?
Amy C. Edmondson: Stavo per dire qualcosa di molto simile, quindi parlerò in generale. Penso che la risposta dipenda dalla leadership e sono d'accordo che forse quella statunitense sarà il primo tra i fattori che la determinano, ma tutte le guide politiche hanno l'opportunità di reinterpretare gli strumenti preziosi che abbiamo, per il bene della collaborazione all'interno della nostra specie.
Giuseppe De Bellis: Come sempre l'ultima domanda del nostro appuntamento è uguale in tutte le nostre puntate ed è: che cos'è per voi il new normal? Vado in ordine, parto con Simon Kuper.
Simon Kuper: Questo verrà deciso ora. Ci troviamo in un momento in cui può succedere di tutto, se si risolve in fretta con la scoperta del vaccino possiamo ripristinare lo status quo, recuperare l'economia e ritornare ad avere una crescita. Questa è un'opzione, la seconda è la vittoria del nazionalismo, con la chiusura dei confini, l'interruzione degli scambi internazionali e il cammino verso un mondo dominato dalle nazioni e privo di immigrazione. La terza opzione è la vittoria della sinistra liberale che porterebbe l'ondata di rinnovamento che è stata proposta sia negli Stati Uniti che in Europa, nonché una redistribuzione della ricchezza a favore dei meno abbienti con tassazioni considerevoli per i soggetti più facoltosi. Anche in Paesi come gli Stati Uniti e il Regno Unito i governi di destra hanno speso ingenti quantità di denaro per sostenere i poveri. Secondo me queste sono le tre ipotesi, è impossibile sapere quale vincerà. Dipende dalla durata della crisi, da chi prende l'iniziativa, non ci sarà una soluzione internazionale perché c'è poca cooperazione tra i Paesi, quindi qualcuno troverà una soluzione che valga all'interno del proprio Paese o al massimo all'interno dell'Unione Europea.
Giuseppe De Bellis: Floridi, secondo lei che cos'è il new normal?
Luciano Floridi: Io costruirei su quello che ha detto Kuper molto bene, aggiungendo una postilla. Il new normal sarà anche un'enorme consapevolezza di quello che avevamo e vogliamo tornare ad avere, a esempio certi diritti, certe possibilità, e di quello che siamo in grado di fare quando l'umanità decide di affrontare una crisi sul serio. Ecco questo, in vista delle nuove sfide che sono di tipo globale, ambientale e anche sociale, dovrebbe ricordarci che, e me la cavo qui per chiudere con una battuta in riferimento questa volta con la Costituzione americana, “We the people. Quando ci si mette e quando facciamo sul serio non c'è problema che non possiamo risolvere”.
Giuseppe De Bellis: Edmondson, che cos'è per lei il new normal?
Amy C. Edmondson: Diciamo solo che dovremmo trarre beneficio da questa crisi e riconoscere altre difficoltà simili in campo scientifico che abbiamo affrontato come specie. Più nello specifico spero che il new normal prenda in considerazione il vero problema cioè il cambiamento climatico e che si collabori con le leadership per attuare quei cambiamenti che stiamo aspettando da tempo.
Giuseppe De Bellis: Bene, grazie, grazie a Simone Kuper, a Luciano Floridi, a Amy Edmondson. Grazie di essere stati con noi in questa puntata di Idee per il dopo, ci vediamo la prossima settimana con una puntata dedicata al futuro delle città.