Dopo la decisione della Consulta, Mons. Stefano Russo, seg. generale dei vescovi. "Perso il lume della ragione, medico esiste per curare le vite, non per interromperle". Antonio Magi, presidente dell'ordine dei medici Roma: "Ci atterremo al nostro codice deontologico"
“Siamo rimasti sconcertati di questo pronunciamento della Corte Costituzionale". Sono queste le parole rilasciate a Sky Tg24 da monsignor Stefano Russo, segretario generale della Cei, il giorno dopo la decisione della Consulta sul suicidio assistito. "Si apre la strada a una deriva della nostra società, dove il debole, la persona che è in sofferenza, viene indotta a uno stato di depressione che può indurla a sentirsi inutile rispetto al fatto che, all’apparenza, non è più in grado di fare qualcosa della propria esistenza", precisa. La Corte Costituzionale, interpellata sul caso dj Fabo – Marco Cappato, ha aperto al suicidio assistito e sancito la non punibilità di chi aiuta coloro che hanno deciso di morire, a determinate condizioni (COSA CAMBIA). Per questo Russo avverte: "Non staremo a guardare, a noi interessa la dignità delle persone, qui sono in campo i diritti civili delle persone, non è una questione di religione ma di civiltà. Si rischia di favorire una cultura di morte dove la nostra società rischia di perdere il lume della ragione". Sostenere l’obiezione di coscienza dei medici - aggiunge - "ci pare una cosa logica, altrimenti è inutile che parliamo di libertà". Lo stesso segretario Cei aveva in precedenza affermato: "Il medico esiste per curare le vite, non per interromperle".
"I paletti della Consulta siano effettivi"
Interpellato sulla decisione della Consulta, Russo lancia un appello: "Chiediamo al mondo politico, soprattutto a quelle persone che hanno una visione dell’attenzione alla persona, di intervenire affinché questi paletti che in qualche modo si intravedono nel comunicato della Corte costituzionale possano essere effettivi". Poi aggiunge: "Non c’è qualcosa che possa piacerci, non capisco nel nome di quale libertà una sentenza del genere può essere accolta: un ordinamento giuridico di fatto interviene perché si possa interrompere in modo artificiale la vita di una persona, permettendo che questo avvenga". L’esperienza ci dice che dove si è introdotta questa attenzione da parte dell’ordinamento giuridico, si è sempre più allargata la maglia delle persone che di fatto ricorrono all’eutanasia o al suicidio assistito", afferma il segretario Cei. Sulla questione, una nota della Cei ha ribadito "il rifiuto dell'accanimento terapeutico" ma ha rimarcato la necessità di garantire “l'obiezione di coscienza; sostiene il senso della professione medica, alla quale è affidato il compito di servire la vita".
Presidente medici Roma: "Ci atterremo al nostro codice deontologico"
Della questione ha parlato anche Antonio Magi, presidente dell'ordine dei medici di Roma. “Come medici ci atterremo a quanto dice il nostro codice deontologico, cioè che anche su richiesta del paziente non possiamo compiere atti che provochino o facilitino la sua morte”, ha detto. Secondo il medico, la Consulta ha fatto bene “a mettere dei paletti chiari in questa sentenza, in cui però non dice che deve essere il medico a porre fine alla vita del paziente”. “Noi suggeriamo – ha aggiunto Magi – che sia un pubblico ufficiale a farlo, non può essere il medico". Su chi possa essere questo pubblico ufficiale, poi, ha precisato che “dovrà essere il Parlamento a indicarlo nella legge che è stato chiamato a redigere”. Se poi la legge indicasse proprio nel medico la figura che deve staccare la spina, ha sottolineato Magi, “noi continueremo sempre a seguire il nostro codice deontologico, che ci consente anche di esercitare l'obiezione di coscienza". Il medico, ha concluso, "deve fare di tutto e ha l'obbligo di evitare le sofferenze del paziente, anche con le terapie palliative, ma non può essere parte attiva nell'eutanasia o suicidio assistito".