Informativa dall'Egitto con i risultati degli accertamenti. Ancora mistero sul perché il ricercatore friulano sia stato ucciso. Secondo un quotidiano locale, sarebbe successo "in un appartamento del centro". Al vaglio i filmati. Attivista accusa: l'ufficiale egiziano addetto al caso era già stato condannato per falsificazione di rapporti di polizia e torture
“Non c'è alcun elemento” che possa collegare la morte di Giulio Regeni ad una rapina. Il lavoro degli investigatori italiani al Cairo spazza via le bugie che da giorni arrivano dall'Egitto, anche se al momento non riesce a squarciare il mistero su quanto accaduto la sera del 25 gennaio e, soprattutto, sui motivi che hanno portato il ricercatore friulano verso una fine così atroce. A questa certezza gli investigatori dello Sco e del Ros sono arrivati mettendo in fila una serie di elementi.
Gli elementi contro la rapina - Innanzitutto le condizioni in cui era il cadavere di Giulio: non è plausibile né credibile affermare che una persona sia stata ridotta in quelle condizioni, dopo ore e ore di pestaggio, da qualcuno che aveva come obiettivo “soltanto” una rapina. Ma non solo: se Giulio fosse stato rapinato e poi ucciso, chi lo ha ammazzato piuttosto che scappare con il bottino si sarebbe assunto il rischio di caricarlo su un'auto o un furgone, trasportarlo dall'altra parte della città e scaricarlo lungo un'autostrada. Il tutto nel giorno dell'anniversario di piazza Tahir, in cui il centro del Cairo era presidiato dai poliziotti. Ad ulteriore conferma che la rapina non è mai esistita, anche la testimonianza del coinquilino di Giulio, l'avvocato Mohamed Al Sayad: "I suoi genitori hanno raccolto i beni personali e li hanno portati con loro al momento della partenza. Tutti i vestiti, il computer, i file contenenti le sue ricerche". A casa, dunque, non mancava nulla.
Mistero sul movente - Giulio, è la conclusione, è stato ucciso per altri motivi. Forse per i suoi contatti nel sindacalismo indipendente, forse per aver fatto domande che hanno dato fastidio a qualcuno, forse per aver destato il sospetto che qualcun altro - nel mondo accademico, nei sindacati o nei venditori ambulanti oggetto della sua ricerca - lo stesse utilizzando per avere informazioni. Forse ancora per chi doveva incontrare proprio quella sera, una persona anziana e malata che secondo alcune fonti sarebbe un personaggio dell'opposizione. Fatto sta che al momento il movente resta un mistero e l'indagine egiziana su questi fronti non ha fatto progressi. Anzi, continua a ribadire la tesi dell'atto criminale, della rapina degenerata in omicidio. Per questo sono stati sentiti, dice il quotidiano indipendente Al Masri Al Youm, "37 sospetti", tra cui alcuni "criminali recidivi" della zona di Dokki e "diversi autisti che frequentavano la zona" della Città del 6 ottobre, il luogo dove è stato ritrovato il corpo. Tutte attività, dicono gli stessi media egiziani, che non hanno portato a nulla.
Sarebbe stato ucciso "in un appartamento del centro" - Ma Al Masri al Youm aggiunge anche un altro elemento: "Giulio sarebbe stato ucciso in un appartamento del centro del Cairo". Il quotidiano però non aggiunge alcun dettaglio, né riferisce di perquisizioni, fermi, controlli. E tantomeno lo fanno le autorità di sicurezza. Dunque è probabile che si tratti di una deduzione dovuta al fatto che l'ultima cella agganciata dal telefonino di Regeni, tra le 19.40 e le 20.18 del 25 gennaio, è quella nei pressi di casa sua, da dove il ricercatore avrebbe dovuto raggiungere la stazione della metropolitana di Bohooth (distante 250 metri) e da lì andare alla fermata di Mohamed Naguib. Gli investigatori italiani ora hanno in mano un altro elemento, oltre alla testimonianza dell'amico Gennaro Gervasio, per avere la certezza che non c'è mai arrivato: i filmati delle telecamere di sicurezza della stazione, infatti, non riprendono mai Giulio. Ma si continua a vagliarli.
Accuse al funzionario egiziano che ha in mano il caso - A gettare ombre sull’inchiesta egiziana arrivano anche altre indiscrezioni: il generale Khaled Shalabi, un funzionario della procura di Giza che ha in mano il caso di Regeni e che parlò la sera stessa del ritrovamento di un incidente stradale, secondo l'attivista egiziana Mona Seif, fu condannato da un tribunale di Alessandria nel 2003 per falsificazione di rapporti di polizia e - assieme a due altri funzionari - per aver torturato a morte un uomo.