In "Piovono pietre" (Laterza), Alessandro Robecchi prende di mira i vizi e i tic di un "Paese assurdo". A cominciare dalla moda che vuole che ci si nutra solo di alimenti prodotti sottocasa, anche quando si abita in centro a Milano. Leggi un estratto
di Alessandro Robecchi
Prese troppo sul serio e in dosi massicce, le religioni possono causare seri problemi alla circolazione, colesterolo, guerre, attentati a grattacieli, nonché un pericoloso ottundimento della ragione e ottime scuse per attaccare paesi pieni di petrolio.
Questo vale anche per le convinzioni troppo radicate, le posizioni estremiste, gli integralismi, i carboidrati e le carni rosse.
Capita – capita spesso – che posizioni anche giuste e ragionevoli degenerino in un’orgia di isteria leggermente eccessiva: fate fare il comunismo a Pol Pot, per dirne una, e avrete un’idea abbastanza precisa di quello che intendo.
Eppure. Eppure: chilometri zero! Ecco un’altra religione fresca fresca. Con alcune sue buone ragioni, intendiamoci. Perché ostinarsi a bere acqua che ha viaggiato per centinaia di chilometri sotto il sole, trasportata fino a noi su mezzi molto inquinanti, magari condotti da camionisti volgari, senza scrupoli e con i calendari delle donne nude attaccati ai finestrini, forse addirittura vecchie foto del ministro per le Pari Opportunità?
Perché cibarsi di alimenti che non hanno nulla a che fare con la mia cultura, il mio territorio, le sane abitudini dei miei avi, la sapienza dei contadini delle mie parti?
Perché i contadini delle tue parti – direte voi – e di tutte le altre parti, se è per questo, sono lavoratori stagionali albanesi o schiavi nordafricani retribuiti a vergate da caporali pugliesi.
Vero anche questo, ma non sottilizziamo. Nel caso non lo sappiate, per arrivare sulla vostra tavola una bottiglia di vino australiano percorre oltre 16 mila chilometri, consuma 9,4 chili di petrolio e diffonde nell’atmosfera 29,3 chili di anidride carbonica. Naturalmente io sono per il libero arbitrio, e per me potete bere quanto vino australiano volete, almeno finché il vostro fegato non vi citofona e vi invita al cinema. Ma che voi beviate vino australiano attentando ai miei polmoni mi pare deplorevole.
E dunque: basta! Solo cibi sani, provenienti da allevamenti e fattorie a meno di un chilometro da casa. Niente trasporti, niente inquinamento! Nuovo culto: chilometri zero! Se devo dirla tutta, questa faccenda del chilometro zero, presa alla lettera, può portare sull’orlo della denutrizione. Ad esempio: io abito nel centro di Milano. Dunque, ho passato due giorni a fare l’elenco di cosa potrei mangiare che sia allevato, o coltivato, o che cresca spontaneamente a meno di un chilometro da casa.
Alla fine ho optato per certe bacche raccolte ai giardinetti, di cui ignoro tutto e specialmente se siano commestibili, e una gustosa insalata scovata in un’aiuola spartitraffico. Purtroppo non esistono ulivi, né saline, nel giro di alcune centinaia di miglia, e dovrò mangiarla scondita. Non importa! È il principio che conta! Si sono forse arresi alla carestia i padri pellegrini che per primi sbarcarono sulle coste del New England? No, non si arresero!
Morirono di fame con una certa serafica dignità! Morirono di fame anche perché qualche strano precetto religioso vietava loro di mangiare crostacei. Schiattare di fame su una spiaggia del Maine mentre centinaia di aragoste ti fanno marameo dagli scogli e il gesto dell’ombrello con le chele a venti metri di distanza è seccante, ma del resto, come già detto, le religioni fanno male, a volte malissimo.
Torniamo a noi. Chi voglia affinare le sue qualità di animale ecologico totale mangiando a «chilometri zero» nel centro di una grande città è bene che si alleni. Catturare un piccione non è poi così difficile: se ne trovano di zoppi, perché il traffico cittadino ha anche i suoi pregi. Questi esserini volanti così presenti in città devono avere per forza una dieta equilibrata e sana. Vivono qui da sempre, vicino a noi, cagano sulle nostre macchine: chilometri zero!
Alternativa e variazione alla dieta: il gatto della vicina, o magari direttamente la vicina, perché no, anche quello del cannibalismo è un tabù da sfatare. Quando un branco di hippies americani si inventò questa faccenda del chilometro zero, qui da noi si era già molto avanti con le religioni alimentari: certe mamme dei ceti alti già maneggiavano le merendine confezionate come rifiuti radioattivi, e ampie fasce della popolazione non si sarebbero mai avvicinate a un pomodoro tradizionale, ma soltanto a quelli certificati come provenienti da agricoltura biologica.
Pomodori con almeno un diploma, buona conoscenza della lingua inglese, possibilmente mezzi marci in modo che fosse evidente al consumatore consapevole il loro pedigree biologico, senza schifezze chimiche aggiunte.
A dirla tutta, i Locavores (mangiatori di cibi locali) di San Francisco, ebbero l’accortezza di stare un po’ più larghi. Cominciarono a mangiare esclusivamente cibi locali, cioè coltivati nel raggio di cento miglia da casa. In effetti, fa un po’ meno impressione di «chilometri zero», e già possiamo ragionare. Anche così, però, vorrei avanzare qualche perplessità. Esistono piantagioni di caffè a cento miglia da San Francisco? Vi assicuro che a cento miglia da Milano non ne esistono. E nemmeno ampie zone di Brianza coltivate a banane, pepe nero, pesci spada o seppioline.
E poi, non c’è nulla di peggio di una religione che cozza contro un’altra religione. Se mi converto al culto del chilometro zero, che ne sarà del mio impegno progressista e consapevole di consumare cibi provenienti da aziende eque e solidali dall’altra parte del mondo? Chi glielo va a dire ai campesinos del Nicaragua in lotta contro le multinazionali del caffè che un fesso di Milano, uno che guadagna in un anno come loro in sei vite e mezza, li condanna alla fame per fare il figo a chilometri zero?
È vero che noi progressisti ci cibiamo di simili contraddizioni, ma ci cibiamo anche di caffè, banane, pepe nero, pesci spada e seppioline, se permettete. Senza contare alcune deplorevoli condizioni socio-sanitarie, come ad esempio il fatto che la pianura padana è uno dei posti più inquinati del pianeta, il che pone un uomo moderno come il milanese sapiens di fronte a certe scelte difficili.
Mangiatevi un panino. Il grano verrà dalla stiva di qualche nave che ha percorso migliaia di miglia, guidata da arroganti marinai con una donna in ogni porto, oppure da un campo dorato alla confluenza di autostrade, tangenziali, fabbriche chimiche, inceneritori di rifiuti solidi urbani? Ma valutiamo questa oziosa faccenda alla luce dell’economia nazionale. È noto a tutti che noi, noi italiani, sappiamo fare bene poche cose. Non i telefonini, per esempio, o le centrali nucleari, e nemmeno la chimica industriale, o le nanotecnologie, le serie televisive o la robotica. Sappiamo fare bene il coniglio in umido, questo sì, la pasta, il vino e le melanzane alla parmigiana. Tutto il mondo ci riconosce questo pregio, e gran parte della nostra fama nel mondo – a parte la mafia, la lirica e le argute trovate del nostro presidente del Consiglio – dipende dal cibo. Ora ditemi voi che succederebbe ai produttori di parmigiano reggiano se tutti si mettessero a mangiare a chilometro zero. Suicidi di massa, come minimo. Se in Australia qualcuno facesse due conti e dicesse, ehi, amici, questa bottiglia di Dolcetto d’Alba è buona, sì, ma per arrivare fino a qui ha fatto 16 mila chilometri, consumato 9,4 chili di petrolio e rilasciato nell’atmosfera 29,3 chili di anidride carbonica, beh, sarebbe la fine. Pasta italiana? Buona, ma mi spiace, abito a Monaco di Baviera...
Ecco perché la religione del chilometro zero sembra destinata a un successo di nicchia, praticata da pochi adepti, costretti a fare proselitismo porta a porta come i venditori di «Lotta Comunista», o i testimoni di Geova. Ammettiamolo: le religioni assolutiste non fanno per noi, funzionano meglio le mode. Ora non starò ad almanaccare sulla storia del cibo, la sua evoluzione, il passaggio da mero sostentamento a cultura, a ricerca, a innovazione nella tradizione, a marketing e a birignao per fighetti, eccetera eccetera. Per tutto questo basta accendere la tivù e vedrete gente che cucina, che mangia, che magnifica questo o quel prodotto, che traffica coi fornelli, che canta le lodi di una ricetta o di un prelibato manufatto in materia commestibile, foss’anche il gelato con le scaglie d’oro per il quale forse bisognerebbe ripristinare la garrota e il vecchio caro istituto della gogna. Oppure potete entrare in uno di quei negozi di cibo per ceti alti e altissimi che cominciano a pullulare nelle nostre città. Il macchinone, il vestito griffato, il telefono all’ultima moda sono status symbol stantii. La nuova frontiera dell’ostentazione è il cibo, non c’è dubbio, fino allo snobismo estremo. Cosa vogliamo dalla vita, dopotutto? Semplicità, limpidezza, genuinità. A volte basta un semplice piatto di pasta e il mondo ti sorride. Prendete queste strepitose tagliatelle di grano tenero e uova. Vengono da un’azienda a conduzione familiare dell’appennino tosco-emiliano, due sorelle che si procurano il grano da un mugnaio lì vicino, che lo trasporta a spalle per tutta la valle. L’acqua per l’impasto è presa da una fonte naturale certificata dal wwf e trasportata in otri di pelle a dorso di mulo. Tutto è impastato rigorosamente a mano, come si è fatto per secoli da quelle parti. Uniche concessioni al gusto internazionale, il taglio della sfoglia, effettuato direttamente da Kate Moss, e il prezzo: quattrocentosessanta euro per la confezione monodose da quaranta grammi.
Per il condimento, potete sbizzarrirvi e optare per il pomodoro Regina di Torre Canne, coltivato su una particolare altura, con il sole che lo colpisce con un’inclinazione di quarantuno gradi e gli altoparlanti che diffondono musica classica (principalmente villanelle napoletane del Settecento), cosa che come si sa giova molto alla qualità del pomodoro, specie se colto a mano da giovani laureati in glottologia. Non è meraviglioso cibarsi in sintonia con la natura, sentire il sapore di terre incontaminate e curate con immenso amore? Vi ho mai parlato delle mortadelle di Campotosto? Sicuri? Si tratta di una rara delizia realizzata con maiali allevati in minuscole fattorie, dove la compenetrazione dell’uomo con la natura che lo circonda è totale. Il maiale che diventerà mortadella cresce in ambiente protetto, gioca a scopa con il contadino, che lo lascia vincere un po’, e non si nega qualche buon bicchiere prima di coricarsi.
All’età di tre anni, quando è già un robustissimo animale di oltre quattro quintali, viene mandato all’estero per un master in filosofia. Quando torna, dopo una grande festa, comincia la preparazione: una volta ucciso, non senza i comprensibili sensi di colpa dei contadini fino ad allora fintisi suoi parenti, il maiale viene tritato, affumicato per quindici giorni con legna di quercia in una grotta scavata nel tufo, insaccato insieme a lardo locale, spezie rarissime, esposto per due settimane al vento di tramontana e quindi spedito in tutto il mondo. L’effetto collaterale di questa nuova raffinatissima religione alimentare è che si finisce per frequentare soltanto adepti, sacerdoti e fedeli della stessa religione.
È gente piacevole, colta, quasi sempre ricchissima e di gran gusto, gente che sa apprezzare le cose belle della vita come le auto sportive, i superattici in centro o la Roveja di Civita di Cascia, un piccolo legume coltivato in un appezzamento umbro di due metri per due, che costa 32 mila euro al chilo. Si mangia parlando di cibo, si organizzano gite in luoghi sperduti dove sopravvivono solo finissimi intenditori di cibo, presìdi Slow Food e raffinatissimi ricercatori di riti culinari locali, alcuni grassi come conigli da fossa di Ischia (circa 8 mila euro al chilo, non disossati). Alla lunga, è impegnativo, ma almeno non si parla di politica, così che non si litiga, e si mangia ancor di più. Provate qualche milligrammo di caciocavallo podolico della Basilicata, per esempio. Dovete sapere che il caciocavallo podolico si chiama così perché fatto con il latte di una speciale mucca, che si chiama appunto podolica. Ne sopravvivono ventidue esemplari, ma quindici sono andati a vivere all’estero perché in Italia non si fa ricerca, non si premia il merito e non si imparano le lingue, quindi la produzione non è esattamente massiccia, il che si ripercuote sul prezzo. Buono, eh!
Niente da dire. E poi, ogni cena si trasforma in un master, in un corso, in un seminario. L’oste che si avvicina con il menu vi guarda con la stessa saccente condiscendenza con cui l’architetto famoso guarda un geometra di provincia. L’espressione è quella che dice: «Anche voi qui a mangiare? Ma insomma, che seccatura! ». Non chiede, non dice, piuttosto declama: «Due parole su quello che state gustando». E poi giù con le specifiche tecniche, culturali, storiche, antropologiche. Salsicce che hanno fatto corsi di ballo alla Scala, pesci che andavano a scuola dalle suore, asparagi colti a mano da educande biancovestite che cantano nenie tradizionali, il fagiolo gialèt della Val Belluna che salvò i veneti dalla pellagra, il lonzino di fico dei castelli di Jesi, il salame Pezzente della montagna materana che se non l’avete mai mangiato a Oliveto Lucano, dico, che ci state a fare al mondo? E della susianella di Viterbo, ne vogliamo parlare? E il gallo nero di Val di Vara, allora, che seleziona il mangime con il suo iPad e vive ruspando in appezzamenti con vista sul mare della Liguria e piscina a idromassaggio? Insomma, che aspettate a convertirvi? Cosa vi frena? Forse un minimo rimasuglio di senso del ridicolo? Andiamo, e quando mai è stato un problema, per le religioni!
© 2011, Gius. Laterza & Figli
Tratto da Alessandro Robecchi, Piovono pietre, pp. 190, euro 15
Alessandro Robecchi, giornalista, autore televisivo e teatrale, è 'editorialista satirico' de "il manifesto", scrive di satira su "Micromega", sul "Misfatto" (inserto satirico de "il Fatto Quotidiano") e collabora con numerose testate nazionali. È tra gli autori degli spettacoli di Maurizio Crozza. In televisione (Rai Tre) firma Doc3 e Figu, album di persone notevoli. È stato critico musicale de "l'Unità", caporedattore del settimanale satirico "Cuore" e direttore dei programmi di Radio Popolare Network. Il suo primo libro, Manu Chao, musica y libertad, è stato tradotto in sei lingue.
Prese troppo sul serio e in dosi massicce, le religioni possono causare seri problemi alla circolazione, colesterolo, guerre, attentati a grattacieli, nonché un pericoloso ottundimento della ragione e ottime scuse per attaccare paesi pieni di petrolio.
Questo vale anche per le convinzioni troppo radicate, le posizioni estremiste, gli integralismi, i carboidrati e le carni rosse.
Capita – capita spesso – che posizioni anche giuste e ragionevoli degenerino in un’orgia di isteria leggermente eccessiva: fate fare il comunismo a Pol Pot, per dirne una, e avrete un’idea abbastanza precisa di quello che intendo.
Eppure. Eppure: chilometri zero! Ecco un’altra religione fresca fresca. Con alcune sue buone ragioni, intendiamoci. Perché ostinarsi a bere acqua che ha viaggiato per centinaia di chilometri sotto il sole, trasportata fino a noi su mezzi molto inquinanti, magari condotti da camionisti volgari, senza scrupoli e con i calendari delle donne nude attaccati ai finestrini, forse addirittura vecchie foto del ministro per le Pari Opportunità?
Perché cibarsi di alimenti che non hanno nulla a che fare con la mia cultura, il mio territorio, le sane abitudini dei miei avi, la sapienza dei contadini delle mie parti?
Perché i contadini delle tue parti – direte voi – e di tutte le altre parti, se è per questo, sono lavoratori stagionali albanesi o schiavi nordafricani retribuiti a vergate da caporali pugliesi.
Vero anche questo, ma non sottilizziamo. Nel caso non lo sappiate, per arrivare sulla vostra tavola una bottiglia di vino australiano percorre oltre 16 mila chilometri, consuma 9,4 chili di petrolio e diffonde nell’atmosfera 29,3 chili di anidride carbonica. Naturalmente io sono per il libero arbitrio, e per me potete bere quanto vino australiano volete, almeno finché il vostro fegato non vi citofona e vi invita al cinema. Ma che voi beviate vino australiano attentando ai miei polmoni mi pare deplorevole.
E dunque: basta! Solo cibi sani, provenienti da allevamenti e fattorie a meno di un chilometro da casa. Niente trasporti, niente inquinamento! Nuovo culto: chilometri zero! Se devo dirla tutta, questa faccenda del chilometro zero, presa alla lettera, può portare sull’orlo della denutrizione. Ad esempio: io abito nel centro di Milano. Dunque, ho passato due giorni a fare l’elenco di cosa potrei mangiare che sia allevato, o coltivato, o che cresca spontaneamente a meno di un chilometro da casa.
Alla fine ho optato per certe bacche raccolte ai giardinetti, di cui ignoro tutto e specialmente se siano commestibili, e una gustosa insalata scovata in un’aiuola spartitraffico. Purtroppo non esistono ulivi, né saline, nel giro di alcune centinaia di miglia, e dovrò mangiarla scondita. Non importa! È il principio che conta! Si sono forse arresi alla carestia i padri pellegrini che per primi sbarcarono sulle coste del New England? No, non si arresero!
Morirono di fame con una certa serafica dignità! Morirono di fame anche perché qualche strano precetto religioso vietava loro di mangiare crostacei. Schiattare di fame su una spiaggia del Maine mentre centinaia di aragoste ti fanno marameo dagli scogli e il gesto dell’ombrello con le chele a venti metri di distanza è seccante, ma del resto, come già detto, le religioni fanno male, a volte malissimo.
Torniamo a noi. Chi voglia affinare le sue qualità di animale ecologico totale mangiando a «chilometri zero» nel centro di una grande città è bene che si alleni. Catturare un piccione non è poi così difficile: se ne trovano di zoppi, perché il traffico cittadino ha anche i suoi pregi. Questi esserini volanti così presenti in città devono avere per forza una dieta equilibrata e sana. Vivono qui da sempre, vicino a noi, cagano sulle nostre macchine: chilometri zero!
Alternativa e variazione alla dieta: il gatto della vicina, o magari direttamente la vicina, perché no, anche quello del cannibalismo è un tabù da sfatare. Quando un branco di hippies americani si inventò questa faccenda del chilometro zero, qui da noi si era già molto avanti con le religioni alimentari: certe mamme dei ceti alti già maneggiavano le merendine confezionate come rifiuti radioattivi, e ampie fasce della popolazione non si sarebbero mai avvicinate a un pomodoro tradizionale, ma soltanto a quelli certificati come provenienti da agricoltura biologica.
Pomodori con almeno un diploma, buona conoscenza della lingua inglese, possibilmente mezzi marci in modo che fosse evidente al consumatore consapevole il loro pedigree biologico, senza schifezze chimiche aggiunte.
A dirla tutta, i Locavores (mangiatori di cibi locali) di San Francisco, ebbero l’accortezza di stare un po’ più larghi. Cominciarono a mangiare esclusivamente cibi locali, cioè coltivati nel raggio di cento miglia da casa. In effetti, fa un po’ meno impressione di «chilometri zero», e già possiamo ragionare. Anche così, però, vorrei avanzare qualche perplessità. Esistono piantagioni di caffè a cento miglia da San Francisco? Vi assicuro che a cento miglia da Milano non ne esistono. E nemmeno ampie zone di Brianza coltivate a banane, pepe nero, pesci spada o seppioline.
E poi, non c’è nulla di peggio di una religione che cozza contro un’altra religione. Se mi converto al culto del chilometro zero, che ne sarà del mio impegno progressista e consapevole di consumare cibi provenienti da aziende eque e solidali dall’altra parte del mondo? Chi glielo va a dire ai campesinos del Nicaragua in lotta contro le multinazionali del caffè che un fesso di Milano, uno che guadagna in un anno come loro in sei vite e mezza, li condanna alla fame per fare il figo a chilometri zero?
È vero che noi progressisti ci cibiamo di simili contraddizioni, ma ci cibiamo anche di caffè, banane, pepe nero, pesci spada e seppioline, se permettete. Senza contare alcune deplorevoli condizioni socio-sanitarie, come ad esempio il fatto che la pianura padana è uno dei posti più inquinati del pianeta, il che pone un uomo moderno come il milanese sapiens di fronte a certe scelte difficili.
Mangiatevi un panino. Il grano verrà dalla stiva di qualche nave che ha percorso migliaia di miglia, guidata da arroganti marinai con una donna in ogni porto, oppure da un campo dorato alla confluenza di autostrade, tangenziali, fabbriche chimiche, inceneritori di rifiuti solidi urbani? Ma valutiamo questa oziosa faccenda alla luce dell’economia nazionale. È noto a tutti che noi, noi italiani, sappiamo fare bene poche cose. Non i telefonini, per esempio, o le centrali nucleari, e nemmeno la chimica industriale, o le nanotecnologie, le serie televisive o la robotica. Sappiamo fare bene il coniglio in umido, questo sì, la pasta, il vino e le melanzane alla parmigiana. Tutto il mondo ci riconosce questo pregio, e gran parte della nostra fama nel mondo – a parte la mafia, la lirica e le argute trovate del nostro presidente del Consiglio – dipende dal cibo. Ora ditemi voi che succederebbe ai produttori di parmigiano reggiano se tutti si mettessero a mangiare a chilometro zero. Suicidi di massa, come minimo. Se in Australia qualcuno facesse due conti e dicesse, ehi, amici, questa bottiglia di Dolcetto d’Alba è buona, sì, ma per arrivare fino a qui ha fatto 16 mila chilometri, consumato 9,4 chili di petrolio e rilasciato nell’atmosfera 29,3 chili di anidride carbonica, beh, sarebbe la fine. Pasta italiana? Buona, ma mi spiace, abito a Monaco di Baviera...
Ecco perché la religione del chilometro zero sembra destinata a un successo di nicchia, praticata da pochi adepti, costretti a fare proselitismo porta a porta come i venditori di «Lotta Comunista», o i testimoni di Geova. Ammettiamolo: le religioni assolutiste non fanno per noi, funzionano meglio le mode. Ora non starò ad almanaccare sulla storia del cibo, la sua evoluzione, il passaggio da mero sostentamento a cultura, a ricerca, a innovazione nella tradizione, a marketing e a birignao per fighetti, eccetera eccetera. Per tutto questo basta accendere la tivù e vedrete gente che cucina, che mangia, che magnifica questo o quel prodotto, che traffica coi fornelli, che canta le lodi di una ricetta o di un prelibato manufatto in materia commestibile, foss’anche il gelato con le scaglie d’oro per il quale forse bisognerebbe ripristinare la garrota e il vecchio caro istituto della gogna. Oppure potete entrare in uno di quei negozi di cibo per ceti alti e altissimi che cominciano a pullulare nelle nostre città. Il macchinone, il vestito griffato, il telefono all’ultima moda sono status symbol stantii. La nuova frontiera dell’ostentazione è il cibo, non c’è dubbio, fino allo snobismo estremo. Cosa vogliamo dalla vita, dopotutto? Semplicità, limpidezza, genuinità. A volte basta un semplice piatto di pasta e il mondo ti sorride. Prendete queste strepitose tagliatelle di grano tenero e uova. Vengono da un’azienda a conduzione familiare dell’appennino tosco-emiliano, due sorelle che si procurano il grano da un mugnaio lì vicino, che lo trasporta a spalle per tutta la valle. L’acqua per l’impasto è presa da una fonte naturale certificata dal wwf e trasportata in otri di pelle a dorso di mulo. Tutto è impastato rigorosamente a mano, come si è fatto per secoli da quelle parti. Uniche concessioni al gusto internazionale, il taglio della sfoglia, effettuato direttamente da Kate Moss, e il prezzo: quattrocentosessanta euro per la confezione monodose da quaranta grammi.
Per il condimento, potete sbizzarrirvi e optare per il pomodoro Regina di Torre Canne, coltivato su una particolare altura, con il sole che lo colpisce con un’inclinazione di quarantuno gradi e gli altoparlanti che diffondono musica classica (principalmente villanelle napoletane del Settecento), cosa che come si sa giova molto alla qualità del pomodoro, specie se colto a mano da giovani laureati in glottologia. Non è meraviglioso cibarsi in sintonia con la natura, sentire il sapore di terre incontaminate e curate con immenso amore? Vi ho mai parlato delle mortadelle di Campotosto? Sicuri? Si tratta di una rara delizia realizzata con maiali allevati in minuscole fattorie, dove la compenetrazione dell’uomo con la natura che lo circonda è totale. Il maiale che diventerà mortadella cresce in ambiente protetto, gioca a scopa con il contadino, che lo lascia vincere un po’, e non si nega qualche buon bicchiere prima di coricarsi.
All’età di tre anni, quando è già un robustissimo animale di oltre quattro quintali, viene mandato all’estero per un master in filosofia. Quando torna, dopo una grande festa, comincia la preparazione: una volta ucciso, non senza i comprensibili sensi di colpa dei contadini fino ad allora fintisi suoi parenti, il maiale viene tritato, affumicato per quindici giorni con legna di quercia in una grotta scavata nel tufo, insaccato insieme a lardo locale, spezie rarissime, esposto per due settimane al vento di tramontana e quindi spedito in tutto il mondo. L’effetto collaterale di questa nuova raffinatissima religione alimentare è che si finisce per frequentare soltanto adepti, sacerdoti e fedeli della stessa religione.
È gente piacevole, colta, quasi sempre ricchissima e di gran gusto, gente che sa apprezzare le cose belle della vita come le auto sportive, i superattici in centro o la Roveja di Civita di Cascia, un piccolo legume coltivato in un appezzamento umbro di due metri per due, che costa 32 mila euro al chilo. Si mangia parlando di cibo, si organizzano gite in luoghi sperduti dove sopravvivono solo finissimi intenditori di cibo, presìdi Slow Food e raffinatissimi ricercatori di riti culinari locali, alcuni grassi come conigli da fossa di Ischia (circa 8 mila euro al chilo, non disossati). Alla lunga, è impegnativo, ma almeno non si parla di politica, così che non si litiga, e si mangia ancor di più. Provate qualche milligrammo di caciocavallo podolico della Basilicata, per esempio. Dovete sapere che il caciocavallo podolico si chiama così perché fatto con il latte di una speciale mucca, che si chiama appunto podolica. Ne sopravvivono ventidue esemplari, ma quindici sono andati a vivere all’estero perché in Italia non si fa ricerca, non si premia il merito e non si imparano le lingue, quindi la produzione non è esattamente massiccia, il che si ripercuote sul prezzo. Buono, eh!
Niente da dire. E poi, ogni cena si trasforma in un master, in un corso, in un seminario. L’oste che si avvicina con il menu vi guarda con la stessa saccente condiscendenza con cui l’architetto famoso guarda un geometra di provincia. L’espressione è quella che dice: «Anche voi qui a mangiare? Ma insomma, che seccatura! ». Non chiede, non dice, piuttosto declama: «Due parole su quello che state gustando». E poi giù con le specifiche tecniche, culturali, storiche, antropologiche. Salsicce che hanno fatto corsi di ballo alla Scala, pesci che andavano a scuola dalle suore, asparagi colti a mano da educande biancovestite che cantano nenie tradizionali, il fagiolo gialèt della Val Belluna che salvò i veneti dalla pellagra, il lonzino di fico dei castelli di Jesi, il salame Pezzente della montagna materana che se non l’avete mai mangiato a Oliveto Lucano, dico, che ci state a fare al mondo? E della susianella di Viterbo, ne vogliamo parlare? E il gallo nero di Val di Vara, allora, che seleziona il mangime con il suo iPad e vive ruspando in appezzamenti con vista sul mare della Liguria e piscina a idromassaggio? Insomma, che aspettate a convertirvi? Cosa vi frena? Forse un minimo rimasuglio di senso del ridicolo? Andiamo, e quando mai è stato un problema, per le religioni!
© 2011, Gius. Laterza & Figli
Tratto da Alessandro Robecchi, Piovono pietre, pp. 190, euro 15
Alessandro Robecchi, giornalista, autore televisivo e teatrale, è 'editorialista satirico' de "il manifesto", scrive di satira su "Micromega", sul "Misfatto" (inserto satirico de "il Fatto Quotidiano") e collabora con numerose testate nazionali. È tra gli autori degli spettacoli di Maurizio Crozza. In televisione (Rai Tre) firma Doc3 e Figu, album di persone notevoli. È stato critico musicale de "l'Unità", caporedattore del settimanale satirico "Cuore" e direttore dei programmi di Radio Popolare Network. Il suo primo libro, Manu Chao, musica y libertad, è stato tradotto in sei lingue.