20 miliardi di euro l’anno: a tanto ammonta il fatturato dell'Ortomercato del capoluogo lombardo. Un business che non è passato inosservato alla criminalità. Lo raccontano Barbacetto e Milosa nel libro "Le mani sulla città". Leggine un estratto
di Gianni Barbacetto e Davide Milosa
Dall’Ortomercato di Milano passa oltre il 60 per cento della frutta e della verdura di tutta Italia. Il suo volume d’affari si aggira attorno ai 20 miliardi di euro l’anno, impiegando 40.000 lavoratori e movimentando circa 60.000 camion al giorno.
È una città nella città, dove far rispettare le regole non è semplice e dove controllare non è facile. Chi in teoria dovrebbe farlo è la Sogemi Spa, ovvero Società per l’impianto e l’esercizio dei mercati annonari all’ingrosso di Milano. La denominazione risale al 1980.
Precedentemente, a partire dal 21 febbraio 1956, si chiamava Ortomercato Spa. Da sempre è una società controllata dal Comune di Milano, con sede in via Lombroso 54. All’Ortomercato la mafia ha trovato terreno fertile per condurre i suoi affari. Droga e armi sono state più volte scoperte tra cesti di banane o casse d’arance. C’è poco da fare, l’Ortomercato resta un mostro senza testa, una struttura pachidermica in perenne rischio d’infiltrazione mafiosa.
Vi operano cooperative di facchinaggio che falsificano i permessi di soggiorno della loro manodopera irregolare, vi lavorano migliaia di clandestini che ogni giorno, all’alba, attendono fuori dai cancelli di essere ingaggiati, vi trafficano personaggi ambigui che gestiscono gli affari con metodi intimidatori. L’impunità si respira a pieni polmoni. Chi prova a opporsi ne paga le conseguenze. Ne sa qualcosa Josef Dioli, sindacalista e rappresentante dei lavoratori per la sicurezza: è stato minacciato e picchiato, il suo cancello di casa è stato incendiato.
Che cosa aveva fatto Dioli? Nell’ottobre 2007 aveva indetto il primo storico sciopero dei lavoratori dell’Ortomercato, che chiedevano il rispetto della legalità. Tra le pieghe di un grande sistema senza adeguati controlli, la mafia si infila, prolifera e fa affari. Traffica droga e ricicla denaro fin dentro il palazzo in cui ha sede la Sogemi.
L’arresto di un insospettabile
Antonio Piromalli, nato nel 1972 a Polistena in provincia di Reggio Calabria, vive in un grande appartamento al quinto piano di un palazzo signorile in viale Brianza 33. Pareti bianche, parquet in ogni stanza, arredi di buon gusto.
Nel salotto ci sono pochi quadri d’autore, divani color crema e i giochi delle figlie sparsi ovunque sul pavimento. Sul tavolo da pranzo stanno i registri scolastici della moglie, che insegna in una scuola elementare vicino a piazzale Loreto. Quella di Piromalli è una vita del tutto normale: lavoro, scuola, figli e le vacanze da passare rigorosamente in Calabria.
A Milano si occupa di frutta e verdura, dividendosi tra gli stand dell’Ortomercato e l’ufficio di via Teodosio della sua Sunkist Srl, società che esporta le arance della Calabria negli Stati Uniti. Per questo Piromalli viaggia molto.
Il 23 luglio 2008 sta rientrando da una trasferta a New York, quando viene fermato all’uscita dell’aeroporto di Malpensa. Gli uomini della Squadra mobile di Milano, guidati all’epoca da Francesco Messina, lo attendono al varco. Gli mostrano il tesserino e il mandato d’arresto. Intontito dalle lunghe ore di volo, Piromalli accenna un sorriso e poi dice: «Andiamo».
Quando l’ho visto in tv sono rimasto di sasso. Il signor Antonio, una persona a modo, gentile, salutava sempre, a Natale doveva vedere poi che mance! Sospetti? Che le devo dire? Mai. Con quella moglie e le due bambine. Ogni tanto arrivava qualcuno, ma da lì a pensare certe cose…
A parlare è il custode dello stabile di viale Brianza 33, a conferma della facciata «rispettabile» dietro la quale Piromalli ha sempre condotto la sua vita. In città fa un caldo appiccicoso, le strade si stanno svuotando. Molti sono già partiti per il mare, chi è rimasto conta i giorni.
Attorno alle sette di sera, in via Montebello ci sono poche persone. L’Ufficio immigrazione della Questura è chiuso, qualche agente esce dagli uffici. Un operatore tv con la telecamera in spalla attende da cinque minuti. Un quarto d’ora dopo, Piromalli imbocca il corridoio che dagli uffici della Squadra mobile porta in via Montebello. Ha la testa rasata, gli occhi piccoli e la barba lunga di un giorno. Indossa una camicia bianca e pantaloni neri, scarpe di cuoio e al polso porta un Rolex d’oro. Lo stanno accompagnando al carcere di Busto Arsizio.
In mano tiene un voluminoso faldone: il decreto di fermo firmato dalla Procura di Reggio Calabria. Capo d’accusa: associazione mafiosa. In quella giornata, a conclusione dell’operazione «Cent’anni di storia», oltre a lui finiscono in carcere altre 23 persone, tutte accusate a vario titolo di far parte di una delle cosche più potenti della ’ndrangheta: i Piromalli, da decenni padroni della Piana di Gioia Tauro.
Piromalli junior, la terza generazione
Per l’ennesima volta, Milano si ridesta dal suo torpore, scoprendosi vulnerabile alle infiltrazioni mafiose.
Perché Antonio Piromalli è un capo di peso e lo è per diritto di sangue. Erede di un casato mafioso doc, suo padre Giuseppe, che tutti nel mondo della ’ndrangheta chiamano Facciazza, ha regnato per decenni sulla Piana di Gioia Tauro, ha fatto affari, contribuito a eleggere sindaci, appoggiato politici, estorto a imprenditori e ucciso. Ora si trova al 41 bis nel carcere di Tolmezzo.
Il bastone del comando è passato ad Antonio. Un ragazzo con la testa sulle spalle che sembra sapere quello che vuole. E così il matrimonio è arrivato presto, seguito subito dalla nascita delle due bambine, perché «la famiglia è importante». Come gli affari che da anni il giovane boss dirige dalla sua abitazione milanese a due passi dalla Stazione Centrale e, ironia della sorte, a poche centinaia di metri dalla sede milanese della Direzione investigativa antimafia di via Mauro Macchi. La sua è un’esistenza da insospettabile. Al contrario di boss come Salvatore Barbaro, Antonio Piromalli non fa la bella vita. Ricchissimo, ma riservato, gira con un’Alfa nera intestata alla moglie. Si sveglia presto il mattino per accompagnare le figlie a scuola, dopodiché fa tappa fissa alla chiesa parrocchiale di via Palestrina.
È un uomo di fede, anche se poi, sostengono i magistrati, commissiona omicidi. Trascorre quasi un’ora tutti i giorni seduto tra i banchi della chiesa: rosario in mano, prega per la sua famiglia, per il padre in carcere e perché gli affari continuino ad andare bene. Dalla parrocchia va all’Ortomercato e poi nell’ufficio di via Teodosio 60, che utilizza per incontrare i compari e pianificare gli affari. Piromalli parla inglese e francese, usa internet e comunica con il BlackBerry. Per lavoro ha continui contatti con gli Stati Uniti, New York soprattutto. La Grande mela è la sua meta fissa.
La Sunkist qui gestisce affari milionari: ufficialmente tratta agrumi. La Sunkist America, multinazionale delle aranciate, però, non sa nulla dell’azienda milanese, così come chi lavora all’Ortomercato non ha mai sentito nominare la società americana. Il giovane boss sembra un fantasma. Nessuno lo conosce. Di lui la Questura di Milano non sa molto. Abbastanza, però, per scrivere quanto segue:
Nonostante la giovane età, nel corso degli anni è stato coinvolto in diversi procedimenti penali per vicende anche di elevato allarme criminale. Il che denota non solo la sua notevole attitudine a delinquere, ma il suo stabile inserimento nell’ambiente criminale di Gioia Tauro.
Piromalli junior rappresenta la terza generazione della mafia, quella che viaggia in business class e parla d’affari seduta ai tavolini del Rockfeller Center.
Una mafia salutista, che non usa droghe, che legge, si informa e mangia biologico. Una mafia che si fa impresa e che per questo trova naturale trasferirsi nella capitale economica d’Italia. Non inizia come tutti i picciotti vendendo cocaina e sparando per conto del boss. Erede di un regno sconfinato, il potere ha per lui un odore familiare, quasi casalingo.
Nel 1997, a soli 25 anni, viene condannato in primo grado per associazione mafiosa. Sentenza ribaltata in Corte d’appello perché i giudici non ritengono credibili fino in fondo le parole di un collaboratore di giustizia. Quattro anni più tardi il suo nome compare nell’inchiesta «Conchiglia». Questa volta i magistrati di Reggio Calabria lo promuovono sul campo, attribuendogli un ruolo di vertice nelle estorsioni alle società Cemel e Saitel 90 Srl, ma soprattutto nella gestione degli affari dell’area portuale di Gioia Tauro, una delle più grandi e importanti d’Europa. Dopo il giudizio abbreviato, il boss è condannato a sette anni. Ne sconta due, perché nel 2003 il tribunale lo sottopone alla sorveglianza speciale. Dopo il dominio del padre, ora tocca all’erede comandare. Una successione dinastica che appare un dato accertato, stando a quanto scrivono i giudici calabresi:
Dopo che veniva arrestato Giuseppe Piromalli, capo dell’associazione, il figlio Antonio ne faceva le veci allo scopo di realizzare lo sfruttamento dell’area portuale, mantenendo i rapporti con il padre e il complesso economico-imprenditoriale impegnato nell’area portuale in funzione estorsiva.
Il principe della ’ndrangheta è anche laureato. È dottore in Economia e commercio. Titolo «conquistato» all’Università di Messina dopo aver frequentato, al Nord, l’Ateneo di Pavia. Come? Lo racconta Angelo Sorrenti, imprenditore, prima vittima e poi complice del clan: «Quando il figlio di Giuseppe Piromalli studiava a Milano, toccava a me portare i cesti natalizi ai suoi professori».
Per Piromalli Milano è una città perfetta. La gente corre e passa via. Quei pochi che sanno sono sempre gli stessi. Gli altri, i milanesi che ogni giorno percorrono la circonvallazione di viale Brianza, sono la sua migliore copertura.
Milano è una città distratta e Piromalli junior un boss della ’ndrangheta senza tante preoccupazioni. La sua tranquillità gli permette di gettarsi anima e corpo negli affari di famiglia. E così, se da un lato c’è da controllare il monopolio nel porto di Gioia Tauro, dall’altro bisogna differenziare. «La prima cosa – pensa Antonio Piromalli – è aprire agli Stati Uniti.» Ci sono le arance, ma anche mille tonnellate di cemento leggero, a basso costo, da acquistare nel New Jersey e rivendere in Italia.
© Chiarelettere editore srl
Tratto da Gianni Barbacetto e Davide Milos, Le mani sulla città, Chiarelettere, pp.470, euro 16,60
Gianni Barbacetto è giornalista del Fatto quotidiano. Per Chiarelettere ha pubblicato Mani sporche (con Peter Gomez e Marco Travaglio).
Davide Milosa è giornalista del Fatto quotidiano. Da sempre si occupa di cronaca nera e giudiziaria con particolare interesse per le infiltrazioni mafiose nel Nord Italia.
Dall’Ortomercato di Milano passa oltre il 60 per cento della frutta e della verdura di tutta Italia. Il suo volume d’affari si aggira attorno ai 20 miliardi di euro l’anno, impiegando 40.000 lavoratori e movimentando circa 60.000 camion al giorno.
È una città nella città, dove far rispettare le regole non è semplice e dove controllare non è facile. Chi in teoria dovrebbe farlo è la Sogemi Spa, ovvero Società per l’impianto e l’esercizio dei mercati annonari all’ingrosso di Milano. La denominazione risale al 1980.
Precedentemente, a partire dal 21 febbraio 1956, si chiamava Ortomercato Spa. Da sempre è una società controllata dal Comune di Milano, con sede in via Lombroso 54. All’Ortomercato la mafia ha trovato terreno fertile per condurre i suoi affari. Droga e armi sono state più volte scoperte tra cesti di banane o casse d’arance. C’è poco da fare, l’Ortomercato resta un mostro senza testa, una struttura pachidermica in perenne rischio d’infiltrazione mafiosa.
Vi operano cooperative di facchinaggio che falsificano i permessi di soggiorno della loro manodopera irregolare, vi lavorano migliaia di clandestini che ogni giorno, all’alba, attendono fuori dai cancelli di essere ingaggiati, vi trafficano personaggi ambigui che gestiscono gli affari con metodi intimidatori. L’impunità si respira a pieni polmoni. Chi prova a opporsi ne paga le conseguenze. Ne sa qualcosa Josef Dioli, sindacalista e rappresentante dei lavoratori per la sicurezza: è stato minacciato e picchiato, il suo cancello di casa è stato incendiato.
Che cosa aveva fatto Dioli? Nell’ottobre 2007 aveva indetto il primo storico sciopero dei lavoratori dell’Ortomercato, che chiedevano il rispetto della legalità. Tra le pieghe di un grande sistema senza adeguati controlli, la mafia si infila, prolifera e fa affari. Traffica droga e ricicla denaro fin dentro il palazzo in cui ha sede la Sogemi.
L’arresto di un insospettabile
Antonio Piromalli, nato nel 1972 a Polistena in provincia di Reggio Calabria, vive in un grande appartamento al quinto piano di un palazzo signorile in viale Brianza 33. Pareti bianche, parquet in ogni stanza, arredi di buon gusto.
Nel salotto ci sono pochi quadri d’autore, divani color crema e i giochi delle figlie sparsi ovunque sul pavimento. Sul tavolo da pranzo stanno i registri scolastici della moglie, che insegna in una scuola elementare vicino a piazzale Loreto. Quella di Piromalli è una vita del tutto normale: lavoro, scuola, figli e le vacanze da passare rigorosamente in Calabria.
A Milano si occupa di frutta e verdura, dividendosi tra gli stand dell’Ortomercato e l’ufficio di via Teodosio della sua Sunkist Srl, società che esporta le arance della Calabria negli Stati Uniti. Per questo Piromalli viaggia molto.
Il 23 luglio 2008 sta rientrando da una trasferta a New York, quando viene fermato all’uscita dell’aeroporto di Malpensa. Gli uomini della Squadra mobile di Milano, guidati all’epoca da Francesco Messina, lo attendono al varco. Gli mostrano il tesserino e il mandato d’arresto. Intontito dalle lunghe ore di volo, Piromalli accenna un sorriso e poi dice: «Andiamo».
Quando l’ho visto in tv sono rimasto di sasso. Il signor Antonio, una persona a modo, gentile, salutava sempre, a Natale doveva vedere poi che mance! Sospetti? Che le devo dire? Mai. Con quella moglie e le due bambine. Ogni tanto arrivava qualcuno, ma da lì a pensare certe cose…
A parlare è il custode dello stabile di viale Brianza 33, a conferma della facciata «rispettabile» dietro la quale Piromalli ha sempre condotto la sua vita. In città fa un caldo appiccicoso, le strade si stanno svuotando. Molti sono già partiti per il mare, chi è rimasto conta i giorni.
Attorno alle sette di sera, in via Montebello ci sono poche persone. L’Ufficio immigrazione della Questura è chiuso, qualche agente esce dagli uffici. Un operatore tv con la telecamera in spalla attende da cinque minuti. Un quarto d’ora dopo, Piromalli imbocca il corridoio che dagli uffici della Squadra mobile porta in via Montebello. Ha la testa rasata, gli occhi piccoli e la barba lunga di un giorno. Indossa una camicia bianca e pantaloni neri, scarpe di cuoio e al polso porta un Rolex d’oro. Lo stanno accompagnando al carcere di Busto Arsizio.
In mano tiene un voluminoso faldone: il decreto di fermo firmato dalla Procura di Reggio Calabria. Capo d’accusa: associazione mafiosa. In quella giornata, a conclusione dell’operazione «Cent’anni di storia», oltre a lui finiscono in carcere altre 23 persone, tutte accusate a vario titolo di far parte di una delle cosche più potenti della ’ndrangheta: i Piromalli, da decenni padroni della Piana di Gioia Tauro.
Piromalli junior, la terza generazione
Per l’ennesima volta, Milano si ridesta dal suo torpore, scoprendosi vulnerabile alle infiltrazioni mafiose.
Perché Antonio Piromalli è un capo di peso e lo è per diritto di sangue. Erede di un casato mafioso doc, suo padre Giuseppe, che tutti nel mondo della ’ndrangheta chiamano Facciazza, ha regnato per decenni sulla Piana di Gioia Tauro, ha fatto affari, contribuito a eleggere sindaci, appoggiato politici, estorto a imprenditori e ucciso. Ora si trova al 41 bis nel carcere di Tolmezzo.
Il bastone del comando è passato ad Antonio. Un ragazzo con la testa sulle spalle che sembra sapere quello che vuole. E così il matrimonio è arrivato presto, seguito subito dalla nascita delle due bambine, perché «la famiglia è importante». Come gli affari che da anni il giovane boss dirige dalla sua abitazione milanese a due passi dalla Stazione Centrale e, ironia della sorte, a poche centinaia di metri dalla sede milanese della Direzione investigativa antimafia di via Mauro Macchi. La sua è un’esistenza da insospettabile. Al contrario di boss come Salvatore Barbaro, Antonio Piromalli non fa la bella vita. Ricchissimo, ma riservato, gira con un’Alfa nera intestata alla moglie. Si sveglia presto il mattino per accompagnare le figlie a scuola, dopodiché fa tappa fissa alla chiesa parrocchiale di via Palestrina.
È un uomo di fede, anche se poi, sostengono i magistrati, commissiona omicidi. Trascorre quasi un’ora tutti i giorni seduto tra i banchi della chiesa: rosario in mano, prega per la sua famiglia, per il padre in carcere e perché gli affari continuino ad andare bene. Dalla parrocchia va all’Ortomercato e poi nell’ufficio di via Teodosio 60, che utilizza per incontrare i compari e pianificare gli affari. Piromalli parla inglese e francese, usa internet e comunica con il BlackBerry. Per lavoro ha continui contatti con gli Stati Uniti, New York soprattutto. La Grande mela è la sua meta fissa.
La Sunkist qui gestisce affari milionari: ufficialmente tratta agrumi. La Sunkist America, multinazionale delle aranciate, però, non sa nulla dell’azienda milanese, così come chi lavora all’Ortomercato non ha mai sentito nominare la società americana. Il giovane boss sembra un fantasma. Nessuno lo conosce. Di lui la Questura di Milano non sa molto. Abbastanza, però, per scrivere quanto segue:
Nonostante la giovane età, nel corso degli anni è stato coinvolto in diversi procedimenti penali per vicende anche di elevato allarme criminale. Il che denota non solo la sua notevole attitudine a delinquere, ma il suo stabile inserimento nell’ambiente criminale di Gioia Tauro.
Piromalli junior rappresenta la terza generazione della mafia, quella che viaggia in business class e parla d’affari seduta ai tavolini del Rockfeller Center.
Una mafia salutista, che non usa droghe, che legge, si informa e mangia biologico. Una mafia che si fa impresa e che per questo trova naturale trasferirsi nella capitale economica d’Italia. Non inizia come tutti i picciotti vendendo cocaina e sparando per conto del boss. Erede di un regno sconfinato, il potere ha per lui un odore familiare, quasi casalingo.
Nel 1997, a soli 25 anni, viene condannato in primo grado per associazione mafiosa. Sentenza ribaltata in Corte d’appello perché i giudici non ritengono credibili fino in fondo le parole di un collaboratore di giustizia. Quattro anni più tardi il suo nome compare nell’inchiesta «Conchiglia». Questa volta i magistrati di Reggio Calabria lo promuovono sul campo, attribuendogli un ruolo di vertice nelle estorsioni alle società Cemel e Saitel 90 Srl, ma soprattutto nella gestione degli affari dell’area portuale di Gioia Tauro, una delle più grandi e importanti d’Europa. Dopo il giudizio abbreviato, il boss è condannato a sette anni. Ne sconta due, perché nel 2003 il tribunale lo sottopone alla sorveglianza speciale. Dopo il dominio del padre, ora tocca all’erede comandare. Una successione dinastica che appare un dato accertato, stando a quanto scrivono i giudici calabresi:
Dopo che veniva arrestato Giuseppe Piromalli, capo dell’associazione, il figlio Antonio ne faceva le veci allo scopo di realizzare lo sfruttamento dell’area portuale, mantenendo i rapporti con il padre e il complesso economico-imprenditoriale impegnato nell’area portuale in funzione estorsiva.
Il principe della ’ndrangheta è anche laureato. È dottore in Economia e commercio. Titolo «conquistato» all’Università di Messina dopo aver frequentato, al Nord, l’Ateneo di Pavia. Come? Lo racconta Angelo Sorrenti, imprenditore, prima vittima e poi complice del clan: «Quando il figlio di Giuseppe Piromalli studiava a Milano, toccava a me portare i cesti natalizi ai suoi professori».
Per Piromalli Milano è una città perfetta. La gente corre e passa via. Quei pochi che sanno sono sempre gli stessi. Gli altri, i milanesi che ogni giorno percorrono la circonvallazione di viale Brianza, sono la sua migliore copertura.
Milano è una città distratta e Piromalli junior un boss della ’ndrangheta senza tante preoccupazioni. La sua tranquillità gli permette di gettarsi anima e corpo negli affari di famiglia. E così, se da un lato c’è da controllare il monopolio nel porto di Gioia Tauro, dall’altro bisogna differenziare. «La prima cosa – pensa Antonio Piromalli – è aprire agli Stati Uniti.» Ci sono le arance, ma anche mille tonnellate di cemento leggero, a basso costo, da acquistare nel New Jersey e rivendere in Italia.
© Chiarelettere editore srl
Tratto da Gianni Barbacetto e Davide Milos, Le mani sulla città, Chiarelettere, pp.470, euro 16,60
Gianni Barbacetto è giornalista del Fatto quotidiano. Per Chiarelettere ha pubblicato Mani sporche (con Peter Gomez e Marco Travaglio).
Davide Milosa è giornalista del Fatto quotidiano. Da sempre si occupa di cronaca nera e giudiziaria con particolare interesse per le infiltrazioni mafiose nel Nord Italia.