Dal 12 gennaio, protagonista Martina Belli, regista Silvia Paoli
Dopo l'anteprima dello scorso dicembre dedicata al Teatro Reinach, bombardato nel 1944 e mai ricostruito, il Teatro Regio di Parma inaugura la sua stagione d'opera il 12 gennaio, nella consueta vigilia di Sant'Ilario, con Carmen, l'opéra-comique in quattro atti di Georges Bizet (repliche il 14, 15, 16, 21 e 23 gennaio). Assente da 19 anni, il capolavoro del compositore parigino torna al Regio in un nuovo allestimento con la regia di Silvia Paoli e la direzione di Jordi Bernàcer sul podio dell'Orchestra "Arturo Toscanini". I quattro ruoli principali saranno sostenuti da Martina Belli (Carmen), Arturo Chacon Cruz (Don José), Marco Caria (Escamillo) e Laura Giordano (Micaëla).
Lo spettacolo rientra in quella campagna contro la violenza sulle donne che il teatro emiliano ha intrapreso nel 2018: "Una scelta che ha generato una prima iniziativa, illuminando di rosso la facciata del Teatro Regio ed esponendo sui suoi gradini scarpe rosse in occasione della giornata dedicata a questo dramma, il 25 novembre di ogni anno - spiega la direttrice generale del Teatro Regio, Anna Maria Meo - L'occasione di questo allestimento di Carmen ci dà nuovi spunti per riflettere su una tematica che è quella della libertà delle donne, che Carmen porta fino alle estreme conseguenze. Quindi auspichiamo che questa inaugurazione di stagione non sia solo l'occasione per ascoltare buona musica, ma per riflettere su una tematica molto importante e molto attuale".
"In questa messa in scena - aggiunge la regista, Silvia Paoli - c'è la rivelazione di come anche questa sia l'ennesima storia di una donna vista attraverso gli occhi degli uomini: compositore, librettisti, scrittore e soprattutto Don José. Mi è sembrato dunque importante concentrare l'attenzione sul fatto che Carmen non esista in realtà se non attraverso le parole del suo assassino. Non sappiamo nulla di Carmen che non sia in relazione a lui. Carmen non cambia, Don José si trasforma in nome di una passione (che mi guardo bene dal chiamare amore) vissuta in maniera ossessiva, malata, che lo porta a non tollerare l'idea di non poter più possedere quello che vuole; una storia che potremmo benissimo leggere anche oggi sulla cronaca di qualsiasi quotidiano".