Truffe al telefono: Chiamano in italiano perfetto… e svuotano il conto

“Un mese di stipendio in un solo giorno”. A parlare è Sandeep , 27 anni, cresciuto in un sobborgo di Gurugram. Fino a cinque anni fa, Sandeep inviava curriculum senza ricevere risposte. Oggi lavora in un call center clandestino, insieme a decine di coetanei, fingendo di essere un tecnico Microsoft o un funzionario dell’IRS statunitense. Il loro compito? Spaventare ignari cittadini con falsi avvisi di virus o tasse non pagate, per estorcere pagamenti immediati. Una realtà che emerge da un reportage di TRT World, ma che da colore a una tela forse già conosciuta. Basta un copione dettagliato, poche settimane di “addestramento” e un computer connesso: all’altro capo del filo, l’ingenuità della vittima diventa moneta sonante. Quella di Sandeep non è un’eccezione, ma il volto più visibile di un’industria parallela che ha fruttato miliardi di dollari a migliaia di truffatori sparsi dall’India urbana alle aree rurali più remote. Dai palazzi hi-tech di Bangalore alle campagne del Rajasthan e dell’Uttar Pradesh, centinaia di giovani trovano una via d’uscita alla disoccupazione: basta parlare un inglese abbastanza convincente per fingersi un esperto IT. In alcuni villaggi di Mewat, bastano un generatore portatile e uno o due smartphone con connessione 4G per allestire un “call show” improvvisato, con gruppi di truffatori seduti all’ombra di un albero a martellare numeri di telefono di potenziali vittime. L'ascesa dell'economiia del clic sbagliato Il fenomeno ha radici profonde: tassi di disoccupazione giovanile che sfiorano il 40% in diverse regioni, istruzione spesso scollegata dalle opportunità reali e un mercato del lavoro saturo. In questo vuoto si è inserita un’offerta apparentemente allettante: “Diventa truffatore, guadagna come un ingegnere”. Nei corsi semi-clandestini, istruttori insegnano le tecniche di social engineering: come deviare l’attenzione del bersaglio, quali parole usare per creare panico e come sviluppare falsi documenti in pochi clic. Una volta acquisito lo “script”, il truffatore chiama la vittima – spesso anziani o professionisti oberati di lavoro – avvertendola di un virus critico o di un’indagine fiscale. Poi impone procedure di “risoluzione”: aprire un software di controllo remoto, acquistare buoni regalo o inviare criptovalute. In pochi minuti, scorrono bonifici fraudolenti o acquisti di voucher per cifre che vanno da poche centinaia a decine di migliaia di dollari. Il successo del raggiro passa attraverso la pressione psicologica e l’aspettativa di urgenza: l’idea che, se non si paga subito, arriveranno ripercussioni più gravi. Non siamo di fronte a dilettanti allo sbaraglio: queste reti si organizzano come vere imprese. Nelle città principali – New Delhi, Mumbai, Bangalore – esistono call center attrezzati con ruoli ben definiti: receptionist che filtrano i contatti, operatori che ingaggiano la vittima, supervisori che monitorano i risultati e contabili che gestiscono wallet digitali e conti correnti fittizi. Ogni sei-dodici mesi, per sfuggire ai controlli delle autorità locali, spostano l’intera struttura in nuovi indirizzi, installano linee VoIP e router per mascherare l’origine delle chiamate. Nelle aree rurali, la struttura è meno appariscente ma altrettanto efficiente: in villaggi lontani dalle grandi città, basta un generatore per alimentare la rete, e gruppi di venti-trenta persone possono mandare avanti un “call center” sotto una tettoia di lamiera. Qui l’assenza di infrastrutture legali e la lentezza della giustizia locale rendono estremamente difficile smantellare le organizzazioni. Quando le autorità riescono a intervenire, arrestano solo i livelli più bassi della catena: i veri capi, spesso protetti da conti offshore e server ubicati in Paesi con leggi deboli sul riciclaggio, restano impuniti. Numeri impressionanti, danni globali Secondo dati recenti del governo indiano, tra il 2021 e il 2024 le frodi online orchestrate da queste reti hanno sottratto alle vittime globali quasi 4 miliardi di dollari. Solo nel 2024, oltre 2,5 miliardi di dollari sono stati estorti via phishing e truffe telefoniche. Se inizialmente le chiamate miravano quasi esclusivamente a cittadini di Stati Uniti, Canada, Regno Unito e Australia, oggi le frodi si estendono sempre più all’Europa: servizi di traduzione rapida consentono di avviare conversazioni in italiano, tedesco o francese, moltiplicando l’impatto sulle imprese e sui privati europei. Per le vittime, il danno non si esaurisce con la perdita diretta di denaro. Un professionista italiano che si vede rubare credenziali di accesso può subire un’interruzione dei servizi bancari, vedere compromessi i propri dati sensibili e, nel peggiore dei casi, dover affrontare la sospensione di conti correnti o carte di credito. Per una PMI, il furto di informazioni sul cliente o la paralisi del gestionale può significare giorni di fermo, contratti saltati e minori opportunità di lavoro sul mercato internazionale. Perché il fenomeno ci riguarda direttamente L’Italia è tra i Paesi più digitalizzati d’Europa nel settore delle piccole e medie imprese. Molte aziende hanno adottato sistemi gestionali in cloud, connessioni IoT per la produzione, telecamere di sorveglianza e backup automatici. Questa spinta al digitale, che doveva rappresentare una svolta per l’efficienza e la competitività, è finita per ampliare la “superficie di attacco”. Ogni dispositivo connesso è una porta potenzialmente vulnerabile: una stampante non aggiornata, un router con password di default, un account e-mail non protetto diventano vie di accesso per i criminali. Inoltre, l’aumento dei tentativi di frode ha già indotto alcune aziende italiane a inasprire le misure di sicurezza: firewall più rigidi, blocco preventivo di chiamate internazionali sospette, restrizioni sulla geolocalizzazione delle e-mail in ingresso. Queste contromisure, seppur necessarie, rallentano processi e flessibilità: un imprenditore che lavorava senza problemi con un fornitore in Cina può trovarsi improvvisamente bloccato, mentre un collaboratore esterno non riesce più a inviare documenti per timore di scatenare falsi positivi. Se fino a qualche anno fa le chiamate fraudolente erano limitate a un linguaggio maccheronico, oggi la situazione è in rapida evoluzione. L’intelligenza artificiale e i servizi di traduzione automatica permettono di far sembrare l’operatore madrelingua. Nel 2025 vedremo casi sempre più frequenti di chiamate in italiano perfetto, con accenti localizzati e riferimenti precisi a istituzioni nazionali, che aumenteranno drasticamente la probabilità di truffa. Parallelamente, l’uso di algoritmi di deepfake vocali e video consentirà ai truffatori di recapitare false videoconferenze con “esperti” che mostrano brandelli di schermate autentiche. Ciascuna di queste tecniche mira a superare il sospetto iniziale della vittima, a creare l’idea che l’operazione sia legittima e urgente. In questo contesto, le tecniche di social engineering non saranno più sufficienti da sole: il crimine digitale sfrutterà ogni innovazione tecnologica per affinare le proprie modalità di raggiro. Le contromisure: dall'allerta personale alla strategia nazionale La prima linea di difesa, come sempre, rimane la consapevolezza individuale. Semplici regole di buon senso – non aprire allegati sospetti, non fornire mai dati bancari o credenziali via telefono, verificare sempre l’identità dell’interlocutore – continuano a fare la differenza. Per le imprese, è fondamentale estendere questa mentalità a tutti i livelli: non basta insegnare al reparto IT cosa fare, bisogna coinvolgere dirigenti, impiegati, operai, affinché ciascuno riconosca un tentativo di phishing o una chiamata ingannevole. A livello istituzionale, serve uno sforzo congiunto tra governo e associazioni di categoria. L’Unione Europea e lo Stato italiano devono potenziare i centri di cyber-security nazionali, semplificare le procedure di denuncia delle frodi informatiche e incentivare con sgravi fiscali l’acquisto di soluzioni di protezione avanzata. Un credito d’imposta del 50% per le spese in sicurezza gestita, valido per le PMI con meno di 50 dipendenti, potrebbe fare la differenza tra un’azienda che decide di investire nella difesa o di rimandare, col rischio di trovarsi senza risorse al primo attacco. Il fenomeno dei call center indiani che truffano in tutto il mondo non è un episodio passeggero ma la punta di un iceberg che coinvolge interi settori economici. Oggi, chi siede al comando di queste organizzazioni rimane quasi sempre impunito. Se l’India non inasprirà le pene per il cybercrime e non investirà seriamente in polizie digitali, questa economia illegale continuerà a prosperare. Per l’Italia, la sfida è doppia: da un lato, proteggere cittadini e imprese da perdite dirette; dall’altro, salvaguardare il terreno già guadagnato nella digitalizzazione del Paese. Blindare un call center allestito in un villaggio non basta: bisogna rinforzare le difese di frontiera, diffondere competenze e responsabilità a tutti i livelli. Ogni imprenditore, da Nord a Sud, deve rendersi conto che ormai non c’è più distinzione tra “virtuale” e “reale”: un euro sottratto dietro uno schermo è un euro in meno per l’economia reale. Solo agendo tempestivamente – con formazione, investimenti mirati e sinergie istituzionali – potremo limitare l’impatto di un fenomeno che rischia di cancellare in un click i risultati di anni di innovazione. In gioco non ci sono solo conti correnti prosciugati, ma la fiducia che consente alle nostre imprese di guardare al futuro senza paura.

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