Disinformazione artificiale: come l'AI avvelena i pozzi dei media

Parlano come persone vere, oppure usano testi che sembrano in tutto e per tutto veri, ma di vero non c’è niente: tra i molteplici impatti che l’intelligenza artificiale sta avendo sul mondo e sulla nostra vita quotidiana, ce ne sono alcuni che nel racconto collettivo rimangono relativamente in ombra. Uno di questi è certamente l’uso – o, per meglio dire, l’abuso – che ne fanno gli attori statali interessati a diffondere disinformazione e instabilità: in altre parole, la proliferazione di fake news, che non sono mai sembrate “not fake” quanto oggi. Le manovre iraniane Poche settimane fa OpenAI, la maggiore compagnia del settore, ha annunciato di aver scoperto e sventato una campagna di disinformazione online messa in atto dall’Iran, ribattezzata Storm-2035. La novità insita in questo specifico tentato avvelenamento dei pozzi era tutta nello strumento utilizzato per metterlo in pratica: ChatGPT, l’applicazione di intelligenza artificiale generativa della casa di San Francisco, a cui gli iraniani avevano chiesto di produrre finti articoli e commenti “credibili” di orientamenti politici e argomenti disparati, dagli Stati Uniti e le elezioni del prossimo 5 novembre alla Palestina, e dall’Ucraina all’indipendenza scozzese. La fama e – soprattutto – l’ampiezza delle capacità dei tool messi a disposizione a basso costo a milioni di persone ha già richiamato cautele e moniti da parte degli osservatori internazionali: in mani non particolarmente benintenzionate come quelle di un servizio segreto che opera all’estero, gli applicativi di intelligenza artificiale di ultima generazione possono fornire la materia prima che conduce all’instabilità sociale. E in un anno come il 2024, quando complessivamente quasi metà della popolazione mondiale sarà andata alle urne per elezioni nazionali tenute in 64 Paesi, questo rischio è ulteriormente preoccupante. Tutti coinvolti A maggio la stessa OpenAI aveva pubblicato un report che dettagliava altre cinque operazioni di disinformazione su larga scala che cercavano di distorcere l’opinione pubblica e manipolare la geopolitica con l’ausilio delle fake news: nella loro cabina di regia c’erano sia imprese private con legami torbidi con le diplomazie, sia direttamente attori statali come Russia, Cina, Israele e lo stesso Iran, tutti in gara per plasmare le menti degli utenti nella guerra dell’informazione online. Queste operazioni sotto copertura si sono servite della tecnologia di OpenAI per generare post da pubblicare sulle principali piattaforme di social media, tradurre e modificare articoli, e in ogni caso per far avanzare gli interessi particolari di uno Stato, che si trattasse della guerra a Gaza o delle schermaglie fra Cina e Stati Uniti. Che il problema sia sempre più marcato lo dimostrano i metodi urgenti con cui le istituzioni internazionali cercano di correre ai ripari: la Federal Communications Commission americana ha messo fuori legge le chiamate con voci in IA che cercano di scoraggiare gli elettori a votare, mentre all’ultimo meeting di Davos un rapporto ha definito la disinformazione artificialmente generata la singola più grande minaccia che il mondo ha davanti a sé nel breve termine. A febbraio le maggiori Big Tech – Adobe, Amazon, Google, IBM, Meta, Microsoft, OpenAI e TikTok – si sono convinte a firmare a Monaco una carta d’intenti che promette di prendere «precauzioni ragionevoli» per evitare che l’IA metta a repentaglio le elezioni democratiche intorno al mondo: ma il patto è su base volontaria, e nessuno controllerà che queste aziende rispettino la parola data.