Non è tutto oro il like che luccica: i brand ora temono i social

"Nel bene o nel male; purché se ne parli"? Non proprio. O, quantomeno, l’antico adagio che sancisce il primato della notorietà sul sentiment – come potremmo chiamarlo oggi – sembra aver urgente bisogno di aggiornamenti: nell’era dei social media e della viralità, essere oggetto di “parlar male” può portare a danni serissimi non solo alla reputazione ma anche alla propria qualità della vita. La stessa architettura delle piattaforme dei social media che usiamo ogni giorno – da Instagram a Twitter, e da TikTok a Facebook – porta inevitabilmente all’additamento dell’avversario nell’ottica dello scontro onnipresente, quello che massimizza l’engagement e le interazioni monetizzabili per i giganti della Silicon Valley. Un giro da 300 milioni di euro Ma sapete chi non apprezza per nulla questo genere di dinamiche ? I brand. Negli ultimi anni le aziende di ogni latitudine hanno iniziato a ricostruire le fondamenta dei loro sforzi di reclamizzazione, affidandosi sempre di più alla cosiddetta creator economy, cioè al mercato dei profili con una forte presenza social disponibili a siglare accordi commerciali per fare pubblicità a questo o quel prodotto. Un settore che ha già superato i 127 miliardi di dollari di giro d’affari nel 2023, e su cui le divisioni marketing stanno riversando sempre più soldi, passando in massa dalla pubblicità più tradizionale agli accordi di sponsorizzazione con influencer e creator: secondo i dati della società eMarketer, nei soli Stati Uniti il denaro corrisposto a queste figure dalle aziende è più che raddoppiato dal 2019, arrivando a un totale di 5 miliardi di dollari. In Italia, secondo la neonata associazione di categoria Assoinfluencer, il comparto è vicino a raggiungere i 300 milioni di euro di investimenti. Un miliardo e mezzo di dollari in fumo Ma come si diceva, non è tutto oro il like che luccica: molti brand hanno provato sulla propria pelle che scendere nell’agone dei social può significare finire scottati da alcuni dei suoi frequentatori più assidui, e – peggio ancora – perdere moltissimi soldi. Nella primavera dell’anno scorso la multinazionale belga dei drink Anheuser-Busch InBev ha dovuto dire addio a quasi un miliardo e mezzo di dollari di vendite della birra Budweiser – in particolare nella sua versione Bud Light – dopo che quest’ultima era stata fatta reclamizzare in una campagna sui social all’influencer transgender Dylan Mulvaney. Molte personalità della destra e dell’estrema destra statunitense si erano scagliate contro il prodotto, vedendo una presa di posizione politica e culturale nella scelta della testimonial, e Bud Light aveva fatto segnare un -23% di vendite a scaffale rispetto all’anno precedente. Influencer a prova di brand Una storia diventata il simbolo di tutto ciò a cui i reparti marketing oggi guardano con sacro terrore: oggi i brand cercano ancora influencer e creator, ma stando bene attenti a evitare quelli che parlano, o potrebbero parlare, di politica. E quella del «potrebbero parlare» è una questione così cruciale che, come spiega il New York Times, oltreoceano le agenzie di digital marketing hanno colto la palla al balzo e hanno iniziato a offrire alle imprese loro clienti degli strumenti per misurare la cosiddetta brand safety di un personaggio del mondo dei social: alcuni di essi utilizzano l’intelligenza artificiale per restituire le probabilità che quella data persona si metta a postare contenuti politicamente divisivi; altri – come quello dell’agenzia di influencer Viral Nation – sono in grado addirittura di riconoscere se nei video del creator appaiono cartelli di protesta, video di manifestazioni o armi. Insomma, se fino a poco tempo fa bastava join the conversation, unirsi alla conversazione, oggi i marchi registrati guardano con sospetto a molte conversazioni social, temendo che si rivelino sabbie mobili da cui è impossibile districarsi. Nel bene o nel male, purché non se ne parli troppo male.