Dalla Cina del figlio unico alle Paralimpiadi, il judo di Paolo Dongdong Camanni

Lo contattiamo fra un allenamento e un altro, perché di tempo a disposizione Paolo Dongdong Camanni ne ha davvero pochissimo. Da qualche settimana ha messo in standby gli studi di ingegneria elettronica a Bologna. Ora deve correre a Deruta, il suo paese da 10.000 anime nel cuore dell’Umbria, per raggiungere il maestro Gaspare Mazzeo. Con lui, che lo ha iniziato al judo, studia il curriculum di ogni avversario. Poi, è pronto il volo per Valencia per completare la preparazione atletica e tattica con gli allenatori della nazionale. Infine, scalo a Parigi in vista delle Paralimpiadi. Dove è già con la testa: “Attacchi alle gambe, attacchi in avanti. Per alcuni avversari servono certi lavori, perché sono mancini. Con altri devo tentarne altri. L’importante è provare il movimento 100 o 200 volte di seguito in allenamento”. E – ci assicura – quei numeri non sono un’iperbole. Pronto alle Paralimpiadi Sul punto da cui iniziare per raccontarsi Camanni non ha dubbi: “Partiamo dal judo e dalle Paralimpiadi”. E non si nasconde neppure di fronte alla domanda di rito sulle aspettative: “Non sono scaramantico – confessa – e i risultati parlano chiaro: sono quarto nel ranking mondiale. Le medaglie che ho vinto nelle competizioni europee e mondiali dicono che posso combattere per il podio”. Un obiettivo che passa dallo studio di ogni judoka in gara. I più temibili? “Un rumeno, un kazako e un tedesco”. “Ho lottato con molti di loro e altri li ho analizzati con il mio maestro - spiega -. È tutto registrato, abbiamo analizzato ogni combattimento”. Sul tatami, poi, esercita le controffensive: prima provando tutte le proiezioni, poi combattendo al suolo. Se dovesse finire a terra, quindi, non ci sarà da preoccuparsi: “Sarà la mia arma in più – assicura – perché mi sono allenato per anni nel combattimento al suolo e lì sono sicuro delle mie capacità”. Ma se la medaglia non arrivasse? Camanni schiva il diretto: “Può succedere. Metà del successo è dovuto alla forma fisica e metà alla forma mentale. Io le sto allenando entrambe per il podio, ma l’obiettivo vero è concludere il percorso senza rimpianti”. E del suo percorso, alla fine, riusciamo a farlo parlare. Una serie di sfortunati eventi A 21 anni non si può certamente parlare di “percorsi conclusi”. Ma quello di Paolo Dongdong Camanni è, quantomeno, iniziato da molto lontano. Cominciata a Pechino nel 2003, la sua è una di quelle storie innescate da “una serie di sfortunati eventi”. A soli tre mesi, la diagnosi di un retinoblastoma in fase avanzata, un tumore bilaterale agli occhi, gli lasciò il 10% di chance di sopravvivenza. In breve, Paolo rimase completamente privo della vista. Così, la famiglia d’origine, sotto il giogo della legge del figlio unico , decise di abbandonarlo presso un monastero gestito da suore cattoliche clandestine. Facendogli toccare il fondo, senza neppure rendersene conto: “Era come se non esistessi: avevo perso la vista, i genitori mi avevano abbandonato e nessuno sapeva dell’esistenza delle suore perché erano clandestine”. Una vita salvata da un bluff Nella vita reale succede raramente. Ma nelle storie più appassionanti, a volte, compare un deus ex machina. Quello di Paolo Camanni si chiama Luca Vinciguerra, è un giornalista del Sole 24 Ore e nel 2003 si trovava in Cina per lavoro. Dopo aver incontrato le suore che ospitavano il bimbo, decise di accoglierlo a casa sua per alcuni mesi e di procurarsi i documenti per il trasferimento in Italia per ottenere le cure. Ma subito si dovette scontrare con l’efficiente burocrazia cinese, che sosteneva che Paolo – a tutti gli effetti – non esistesse. “Per superare questa situazione il giornalista – spiega Camanni – in concomitanza con la visita del presidente Ciampi in Cina escogitò una strategia audace: annunciò pubblicamente che, in mancanza dei documenti necessari entro la giornata successiva, avrebbe messo tra le braccia della moglie del presidente il bambino durante una trasmissione in diretta su Rai 1”. La mossa funzionò, le pressioni mediatiche accelerarono il processo e a 12 mesi Paolo Camanni fu adottato e giunse in Italia. Ma il tumore non era ancora guarito. Guarito dai medici, salvato dal judo Tre anni di radioterapie, chemioterapie e altri trattamenti. Una famiglia, la sua, quella umbra di Deruta, in costante apprensione. Tempo ed energie che sono serviti a salvare la vita a Paolo, guarito dalle equipe di medici milanesi. “Mi hanno regalato la vita”, sintetizza con un sorriso. Da allora, Deruta ha cominciato a conoscere un Paolo “intraprendente”: “Ho imparato a scrivere già tra i 4 e i 5 anni – racconta – ma mi concentravo più su sensi come udito, tatto e olfatto, dato che il movimento nello spazio presentava difficoltà”. Così, Paolo ha provato con lo sport. Prima il nuoto, che per quattro anni lo ha aiutato ad avere controllo di sé. Poi, solo perché la sua piscina aveva chiuso i battenti, il judo. “Dal punto di vista percettivo ritengo che il judo sia la migliore attività per chi, come me, è affetto da cecità”. Al buio sul tatami Lo studio dell’equilibrio, la pratica delle cadute, i rotolamenti e le rotazioni. Tutto nel judo allena il corpo a ritrovarsi e a riprendere punti di riferimento mai avuti. “Si tratta di un’arte che aiuta il cieco a muoversi anche nella vita di tutti i giorni”, spiega. Eppure, a prima vista, il suo judo non pare diverso da quello dei suoi colleghi non ciechi. A domanda, come sempre, Camanni risponde: “Cosa vuol dire far judo per una persona come me? Per una persona come me vuol dire far judo come tutti gli altri”. È per questo forse che in soli tre anni è diventato atleta agonista, in sei ha vinto l’argento agli europei e in nove il bronzo ai mondiali. È per questo, forse, che la qualificazione alle Paralimpiadi è stata solo una formalità. Ed è per questo che, adesso, vola a Parigi con il sorriso stampato in faccia: “È una competizione enorme, ma io sono rilassato. In fondo, sto solo andando a divertirmi”.