Far East Film Festival 2024, il racconto della 26ma trionfale edizione
TV ShowGiovedì 2 Maggio si è chiuso il Far East Film Festival di Udine, la più grande vetrina occidentale dedicata al cinema popolare asiatico in Europa. Un’edizione straordinaria, a detta di molti una delle migliori di sempre, un connubio memorabile di qualità, generi e storie capace di soddisfare tutti i palati, da Taiwan al Giappone, passando per le principali cinematografie dell’Estremo Oriente. Ecco gli highlights
Ogni tanto occorrerebbe fermarsi e riflettere, specialmente dopo edizioni come questa o al termine di intere, magnifiche giornate in sala come quella del 25 Aprile, per rendersi conto di quanto siano fortunati gli spettatori del Far East Film Festival: per fare un paragone che l’appassionato occidentale possa comprendere, sarebbe come se venisse organizzato un festival aggregatore dei migliori film della scorsa stagione dell’Unione Europea in un’unica location. Sarebbe subito etichettato come il miglior festival dell’anno, ma sapete una cosa? Il FEFF ne uscirebbe comunque vincitore. Tali sono il suo valore e la sua unicità all’interno del panorama cinematografico del Vecchio Continente e di quello italiano, un evento irreplicabile altrove con un potenziale sempre più in espansione, e questa nove-giorni udinese ne è stata una fragorosa dimostrazione.
LA GRANDE CONFERMA DOPO IL 25MO ANNIVERSARIO
Reduci dal 25mo anniversario dello scorso anno chiuso con un grande successo di numeri e pubblico i due fondatori del FEFF Sabrina Baracetti e Thomas Bertacche hanno superato ogni più rosea aspettativa, confermando – anzi migliorando – i risultati del 2023 e mettendo in piedi cifre da record: 228 ospiti provenienti dalle nazioni rappresentate (tra cui il leggendario regista cinese Zhang Yimou, protagonista di un’indimenticabile masterclass a teatro il 2 Maggio), 65mila spettatori e soprattutto ben 79 film da 12 Paesi, con 12 anteprime mondiali, 22 internazionali, 23 europee e 19 italiane. Un magma umano e filmico degno del miglior passato pre-pandemico, aiutato strategicamente anche dal leggero spostamento delle canoniche date di fine Aprile, facendo coincidere il festival sia con il ponte della Liberazione che con quello del Primo Maggio. Una mossa azzeccata i cui frutti si sono visti nel flusso continuo di appassionati diligentemente in coda agli ingressi dei quattro livelli del Teatro Giovanni Nuovo da Udine, trasformato per l’occasione nella “solita” sala cinematografica dal fascino irresistibile.
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REVOLUCION INDONESIANA
L’estrema qualità di questa edizione ha portato alla ribalta anche cinematografie considerate secondarie rispetto ai soliti leoni cinesi, giapponesi o sudcoreani: è il caso dell’Indonesia, giunta a Udine con il giusto piglio rivoluzionario e una lezione da impartire alla pachidermica e narcotizzata società occidentale evitando per una volta il genere horror. Se anche in Europa il mondo-crypto ha preso piede dopo il decollo del Bitcoin nel 2021, in “13 Bombs” di Angga Dwimas Sasongko il re indiscusso delle monete virtuali diventa il simbolo concreto per contrastare – citando il capo dei rivoluzionari del film – “l’impoverimento sistemico della popolazione” e dare un’alternativa credibile e decentralizzata al popolo oppresso da politici corrotti ed economie terzomondiste in costante emergenza. Un manifesto politico-sociale (tanto auspicato da Mr.BTC Satoshi Nakamoto) travestito da action movie pirotecnico che svela le urgenze reali di certi Paesi, con scene d’azione esplosive all’altezza di produzioni ben più attrezzate, un montaggio frenetico adeguato alla tesa colonna sonora fino all’ultima, sanguinosa transazione.
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LA MEGLIO GIOVENTU’ DI TAIWAN
Le pellicole formosane, must-watch per definizione al FEFF, hanno regalato alcune delle perle più preziose grazie al talento versatile, peculiare e iper-sensibile della nuova gioventù taiwanese. La 12enne Audrey Lin con “Trouble Girl” ha stregato il pubblico di Udine con la stupefacente interpretazione di una ragazzina malata di ADHD, tra bullismo, amicizie difficili, genitori in crisi e un pianoforte come unico rifugio sicuro; il 14enne Run-yin Bai in “Old Fox” ha mostrato tutta la propria tenera tenacia nel negoziare con il boss locale una miglior condizione economica per il padre, tra ciniche lezioni di vita e inaspettata umanità nella provincia più povera durante il crollo azionario a Taiwan del 1990; due (finti) adolescenti in “18x2 Beyond Youthful Days” hanno commosso l’intero teatro nel film più romantico, con la giramondo giapponese Kaya Kiyohara, segretamente cardiopatica, innamoratasi di un ragazzo locale, l’impacciato Greg Hsu, durante un viaggio a Tainan, con il più classico degli addii strappalacrime girato durante il famoso lancio delle lanterne; in “Tales of Taipei” alcuni tra i più promettenti registi del Paese hanno dato vita a nove brevi episodi ambientati nella capitale, con uno sguardo realista e malinconico sull’oggi foriero di minacciosi venti cinesi e un’eleganza innata degna della regia dei migliori Maestri taiwanesi, due affascinanti lite motive non solo dell’ensemble ma di tutte le opere citate.
COREA DEL SUD 1/ ALTA TENSIONE SUDCOREANA
Tra le prime cinque cinematografie mondiali nel 2019, la Corea del Sud negli ultimi anni ha accusato più di altre nazioni l’impatto della pandemia ma, nonostante il recupero sia ancora in corso, gli spettatori del FEFF non hanno avuto ragion di lamentarsi, godendo di alcune delle proiezioni di maggior impatto dell’intero festival. A tenere alta la tensione drammatica ci hanno pensato lo strambo thriller “Citizen of a Kind” di Park Youn-ju, vincitore del premio alla miglior sceneggiatura e ispirato a una vera truffa telefonica ai danni di una donna di mezz’età capace di rintracciare i truffatori in Cina e farsi giustizia (quasi) da sola, tra detective improvvisate e recitazioni spesso sopra le righe; e il dramma “12x12 The Day” di Kim Sung-soo, cronaca cruda e onesta del colpo di stato del 12 Dicembre 1979 orchestrato dal generale Chun (un clamoroso Hwang Jung-min, da sempre adorato dai FarEasters). Un film potente e politico che, mettendo a nudo una delle notti più cupe della storia sudocreana, è stato premiato dagli spettatori locali con il primo posto al botteghino del 2023, una risposta sorprendente alla crisi produttiva del cinema sudcoreano e un monito all’Italia, incapace di scovare nel proprio DNA simili operazioni a cuore aperto della propria Storia più dolorosa.
COREA DEL SUD 2/ “PARASITE” VIBES
Tra i miglior film del festival è impossibile non citare “A Normal Family” di Hur Jin-ho, terzo adattamento cinematografico del bestseller internazionale “La Cena” di Herman Koch e altro prodotto che, sulla scia dell’Oscar a “Parasite” di Bong Joon-ho, è riuscito ad incunearsi tra le contraddizioni dell’alta società sudcoreana esponendo al giudizio del pubblico l’incoerenza morale, il cinismo e la corruzione dell’animo di quelle che all’apparenza sembrerebbero essere famiglie ricche e perfette. Per farlo, il regista veterano usa come perno narrativo il pestaggio mortale di un barbone da parte di due cugini adolescenti e la loro totale mancanza di pentimento: i rispettivi genitori, messi alle strette da un video del fattaccio e chiamati a delle scelte sul futuro dei figli, mostreranno il loro vero volto in un crescendo di accuse e ostilità, in un dramma quasi da camera attorno a tavole di ristoranti di lusso impeccabilmente apparecchiate che richiama i migliori film del filone, da “Carnage” a “Perfetti Sconosciuti”, passando per le vibrazioni tossiche di “Parasite” e la Corea del Sud più intoccabile e ipocrita.
LA “NUOVA” HONG KONG
La piccola regione sempre meno autonoma della Cina, amatissima a Udine, è sembrata essere tra quelle più in ripresa e capace di scendere a patti con l’ingombrante nuovo padrone di casa. Lasciato (per il momento) alle spalle l’Umbrella movement, i registi locali si sono divisi in due categorie: i veterani colllaborando sempre più con le produzioni della Cina continentale per accedere a budget in grado di sorreggere opere come “The Goldfinger” di Felix Chong, uno dei film più costosi mai realizzati a Hong Kong, con due leggende come Andy Lau e Tony Leung al comando e la storia epica di un self-made man hongkonghese accusato di corruzione e contrastato da un integerrimo investigatore governativo; gli esordienti e i giovani cineasti invece raccontando, con meno risorse ma con coraggio e assenza di timore reverenziale, storie drammatiche e toccanti della Hong Kong odierna, come l’opera prima di Nick Cheuk “Time Still Turns The Page”, struggente dramma sul suicidio e la depressione tra gli studenti, forse il nostro preferito per la delicatezza nel trattare un tema così complesso, e un altro esordio come “Fly Me To The Moon” di Sasha Chuk, sulle difficoltà nell’integrarsi in città di una famiglia di poveri immigrati cinesi. Uno dei suoi grandi protagonisti, Kang Re Wu, vinse proprio lo scorso anno al FEFF col malese “Abang Adick”, film che la casa di produzione del festival, la Tucker Film, sta proprio in questi giorni distribuendo nelle sale italiane cavalcando – si spera – l’onda lunga del festival.
GIAPPONE 1/ DERIVE INQUIETANTI
Se servissero ulteriori prove su alcuni risvolti disturbanti della società giapponese basterebbe guardare uno dei film più intensi e angoscianti di quest’edizione per averne una solida conferma. “Ichiko” di Toda Akihiro è un crudele squarcio sulla vita di una delle circa 1.500 persone che, ancora oggi, non risultano essere registrate all’anagrafe del Giappone a causa di una legge tanto anacronistica quanto tristemente illuminante su alcune pressioni ancora oggi presenti all’interno della struttura sociale del Sol Levante. La ragazza che da il nome al titolo è costretta a vivere ai margini della società e senza assicurazione sanitaria a causa della scelta della madre di non registrarla all’anagrafe entro 300 giorni dalla nascita per sottrarla al padre violento: le conseguenze saranno sempre più drammatiche e brutali, mentre l’ignaro fidanzato prova a ricostruire la vicenda indagando sulla scomparsa della sua Ichiko il giorno seguente alla proposta di matrimonio, fino all’amara scoperta finale. Un film duro e doloroso sull’identità e sull’esclusione, senza alcuna assoluzione e con un’interpretazione lacerante della splendida giovane protagonista Ruka Ishikawa.
GIAPPONE 2/ ELOGIO DEL TOFU
A portare un po’ di leggerezza in platea è stato “Takano Tofu” di Mihara Mitsuhiro che, seguendo le vicende personali di un piccolo produttore locale di tofu a Hiroshima, Takano Tatsuo, ha trascinato gli spettatori tra i poetici rituali della produzione del famoso e popolare alimento a base di soia e i goffi tentativi del protagonista di trovare un marito alla figlia, instancabile aiutante nel negozio di famiglia. Takano, un burbero vecchietto vedovo e incapace di rivelare alla propria figlia di averla adottata, mentre tenta insieme ai suoi amichetti del quartiere di trovare il candidato più adeguato inizierà a provare un sentimento d’amore che ormai reputava scomparso per una inserviente del supermercato locale, incontrata per caso all’ospedale. Tra gag e fraintendimenti un inno alla vita e ai piccoli gesti, con una strizzatina d’occhio a “Perfect Days” di Wim Wenders e una divertente antipatia del protagonista verso Tokyo e tutto ciò che non sia legato alle proprie radici. Accolto da una prolungata standing ovation al termine della proiezione, ha vinto sia il premio più prestigioso del FEFF 2024, il miglior film per il pubblico, sia il riconoscimento come miglior film per gli spettatori online di MyMovies.
ZHANG YIMOU, IL SUPER OSPITE
Lo abbiamo citato nell’introduzione ma merita decisamente un suo spazio la presenza dell’iconico regista cinese Zhang Yimou, premiato sul palco con il Gelso d’Oro alla carriera durante l’ultima giornata del festival. Yimou, col suo outift total black, aveva dato vita poche ore prima a una meravigiosa conversazione con la co-fondatrice del FEFF Sabrina Baracetti e Peter Loher, produttore americano esperto di cinema asiatico, toccando molti dei turning point della sua incredibile carriera, dagli esordi e la scelta di passare dal corso di Fotografia a quello di Regia alla Film Academy di Pechino fino ai successi e alle difficoltà di un regista che ha sempre messo “l’Arte sopra ogni cosa, tutto il resto può essere sacrificato.” Durante la premiazione serale insieme al grande produttore taiwanese Chiu Fu-sheng, l’autore di alcuni dei più grandi capolavori cinesi – da “Lanterne Rosse” a “Vivere”, entrambi proiettati a questo FEFF – ha sottolineato quanto sia legato all’Italia, scherzando sulla passione per la pasta e la pizza e venendo sommerso dall’affetto dei fan. Una splendida conclusione anche per i fondatori del Far East, che al suo stile poetico e inconfondibile devono tanto della loro passione per il cinema asiatico e per la nascita stessa di questo festival: fino a qualche tempo fa reputavano Zhang Yimou inarrivabile ma poi i sogni – come spesso accade al FEFF – sono diventati realtà.