The Last Dance, 5 cose da sapere sulla serie tv di Netflix su Michael Jordan

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The Last Dance, cosa sapere prima di vedere la docu-serie Netflix sui Chicago Bulls della stagione NBA 1997-98

Gli appassionati di basket, e dello sport in generale, non attendevano altro che l’arrivo di “The Last Dance”. È la nuova docu-serie Netflix che offre un po’ di amarcord sportivo in un periodo che vede ogni atleta a riposo, a causa dell’emergenza coronavirus (AGGIORNAMENTI - SPECIALE - LA MAPPA).

Lo sguardo è puntato su Michael Jordan e sui suoi Chicago Bulls, in un’annata che ha fatto la storia, quella del 1997-98. Il tutto nasce da un’intuizione di Andy Thompson. Un cognome che di certo dice molto agli appassionati di NBA, con i più giovani che inevitabilmente lasciano andare il pensiero a Klay Thompson, dei Golden State Warriors.

Andy è suo zio, fratello di Mychal, ex Lakers. Una famiglia che ruota attorno all’universo dell’NBA, con Andy che nel 1997 era produttore di “NBA Entertainment”. Ebbe l’idea di proporre un documentario che analizzasse in maniera completa un intero anno di Michael Jordan. Dinanzi ai loro occhi stava per svolgersi l’ultima annata di uno degli sportivi più importanti di tutti i tempi. Qualcosa andava fatto per immortalare al meglio un pezzo di storia. Ecco alcune cose da sapere prima di cimentarsi con la visione della docu-serie, disponibile sul decoder Sky Q per tutti gli abbonati, che potranno accedere all’app Netflix.

L’inizio delle riprese

Un progetto a dir poco imponente, soprattutto per l’epoca, con un budget illimitato. Centinaia di ore di girato, per un anno di sport, da analizzare, tagliare e montare. Un’impresa titanica, considerando come tanto ci fosse da raccontare degli eventi occorsi in quella stagione. Dopo aver consultato il proprietario dei Chicago Bulls, il progetto ottenne un via libera ufficioso. L’ultima parola spettava a Michael Jordan e, soprattutto, a Phil Jackson. Nulla sarebbe stato possibile senza il lasciapassare del coach. Questi comprese subito la portata del progetto, ma pose una condizione. Avrebbe potuto pretendere che gli operatori lasciassero in pace la squadra in qualsiasi momento lo desiderasse.

Convincere Michael Jordan

Riuscire a ottenere l’autorizzazione a filmare da parte di Michael Jordan non era così scontato. Al tempo il campione dell’NBA era gestito da David Falk. Lui e il suo agente erano particolarmente attenti alla sua immagine pubblica. Ritenevano di fatto che perdesse valore a ogni utilizzo accordato. L’idea di Adam Silver fu quella di sottolineare come nessuna delle due parti in causa, NBA e Jordan, potesse sfruttare i filmati senza l’autorizzazione dell’altro. Jordan avrebbe avuto dunque un totale controllo sul destino del progetto.

Fine delle riprese

Al termine dei lavori, il girato è di 500 ore di pellicole. Queste però terminano in un’area separata da tutto il resto dei filmati e immagini NBA. Il tutto viene messo in pausa e stipato per un eventuale futuro utilizzo. In pochi sanno dell’esistenza di questo materiale e, al tempo stesso, sono consci del fatto che soltanto Jordan ha il potere di avviare la produzione di un documentario.

Il via libera di Michael Jordan

Nel corso degli anni in tanti hanno provato ad avvicinarsi a quelle 500 ore di girato, da Spike Lee a Danny DeVito. Nessuno riesce però neanche ad avere un incontro con Jordan per discutere del progetto. I filmati restano lì fino al 2016, quando Mike Tollin riesce nell’impresa. Dopo “Varsity Blues” del 1999 e “Coach Carter” del 2005, ecco la ghiotta chance di una vita. Un documentario che tenta di rendere omaggio a quella stagione, proponendone svariati episodi, come spesso accade nelle docu-serie degli ultimi anni. A convincere definitivamente Michael Jordan a consentire l’avvio del progetto “The Last Dance” è stato l’incontro avvenuto con Tollin. Il campione analizza attentamente la produzione precedente del regista e si sofferma su un titolo: “Iverson”. A quel punto è fatta, così gli dice: “Lo hai fatto tu? L’ho guardato tre volte. Mi ha fatto piangere”.

L’avvio della stagione

Un’ultima annata, conclusiva e spettacolare, iniziata non nel migliore dei modi. Profondi malumori generati da Jerry Krause, general manager. Aveva rilasciato una dura dichiarazione, sottolineando come i titoli venissero vinti dalle organizzazioni e non da giocatori e allenatori. Un duro faccia a faccia, con Jordan che dovette intervenire per garantire la presenza in panchina di Phil Jackson, al quale fecero un contratto di un anno, con nessuna intenzione di rinnovarlo. Un’annata emotivamente stremante, descritta così da Jordan: “This is the last dance (questo è l’ultimo ballo). Questo mi diceva Phil a inizio anno. Abbiamo giocato sapendo che era l’ultima volta. È servito però per concentrarci, per essere certi di finire nel modo giusto”.

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