La band piemontese si libera dai vincoli artistici e sociali e come un Houdini 2.0 irrompe nel rock italiano con energia e stimoli punkeggianti. Scopriamo chi sono anche attraverso una playlist esclusiva e...disadattata
La mia banda suona il rock e lo fa dal 2014. Si chiamano Nakhash, sono piemontesi, sono in quattro e col passaggio all'italiano hanno dimostrato che le band aggressive nella melodica Italia possono primeggiare. Era dagli anni Novanta che il rock ruvido e sociale latitava. Ora possiamo dire che i Negrita, i Timoria, i Litfiba, Gli Afterhours hanno dei nipotini. Si chiamano Elisabetta Rosso (voce, chitarra ritmica, synth), Riccardo D’Urso (chitarra solista, seconde voci), Simone Bussa (basso) e Leonardo Rigamonti (batteria) e insieme fanno i Nakhash. Racconta la frontwoman Elisabetta Rosso che la voglia di essere oltre nasce con la band, fin dagli esordi "abbiamo iniziato a sperimentare e io cantavo inglese. Abbiamo immediatamente capito che per trovare la giusta alchimia ci voleva del tempo". E se lo sono preso. Bravi! Urgenza creativa sì ma non urgenza di esserci. Il loro stile è unico ed è il frutto di ragazzi che arrivano nel gruppo da esperienze diverse. Ognuno oltre allo strumento porta la sua passione e la sua storia. In origine erano in cinque "ora siamo in quattro con un batterista nuovo, arrivato a settembre. I due momenti chiave sono stati il passaggio all’italiano grazie alla collaborazione con Le Vibrazioni, poiché pensavamo che cambiare lingua ci snaturasse. Quindi siamo riusciti a trovare un compromesso valido tra sonorità rock ma in italiano". Colmano un vuoto importante, come ho già accennato, e anche su questo Elisabetta ha le idee chiare: "In Italia sono mancati fatti storico-sociali potenti. In Inghilterra c'è sempre stato un movimento giovanile più coeso, in Italia siamo sempre contro. Prog e Punk nascono per motivi storici e poi si sviluppano un genere musicale. Qui è mancata sempre unità, abbiamo costantemente guardato più fuori confine che dentro. Ci aggiungo che si punta al ribasso per gli investimenti: noi siamo in quattro, solo come band, e dunque risultiamo costosi per una produzione. Siamo economicamente disincentivanti". Il nome, Nakhash, sembra uscito da una leggenda nordica, ha un'anima mitologica che ben si sposa col suono arcigno della band. In realtà è un filosofico errore di gioventù: "Quella h centrale è una condanna, spesso sui manifesti hanno sbagliato a scriverci. Con un mio amico, ai tempi del liceo, facevamo i saputelli e ho perso una scommessa parlando del Leviatano di Hobbes: in palio c'era il nome e lui ha scelto Nakhash, uno dei mostri biblici. Ai ragazzi della band lo ho spacciato per una decisione già presa, non discutibile. Sono una donna di parola e ho rispettato la scommessa". I brani nascono dalla creatività di Elisabetta che li scrive chitarra e voce poi arrivano in sala prove e inizia il confronto. L'ultimo singolo Melancolia è, secondo Elisabetta, il frutto migliore di questa pandemia e possiamo considerarlo un primo step di un percorso che, a fine, anno dovrebbe sfociare nell'atteso Ep, preceduto comunque da un altro paio di singoli.
10 CANZONI PER INGUARIBILI DISADATTATI
Bullet of Buttlerfy wings - Smashing Pumpkins: “Nonostante tutta la mia rabbia sono ancora solo un ratto in una gabbia”, Billy Corgan il disagio ce l’ha nel Dna, e in fondo anche grazie ai suoi irrisolti ha scritto pezzi indelebili nella storia del rock. Noi, ratti nella gabbia, ci sentiamo spesso.
Hurt - Nine inch Nails: “ E tu puoi avere il mio impero di polvere” il senso di inadeguatezza per Reznor è costante, Hurt lo racconta sulla pelle, facendo venire i brividi nel primo riff che precede il ritornello. Quando ascolti Hurt forse quasi ringrazi di essere disadattato, perché è l’unico modo per sentirla anche un po’ tua.
Jesus of Suburbia - Green Day: “E non c’è niente di sbagliato in me, è così che dovrei essere , in una terra che crea speranze, che non crede in me.- Sono figlio della rabbia e dell’amore” Billie Joe Armstrong si proclama Gesù di Periferia, dei disadattati lui diventa il re e la guida. Una critica sfacciata con riferimenti ad Edgar Allan Poe. Ci piace.
Pumped Up Kiks - Foster the People: “Ha una sigaretta rollata che penzola dalla bocca, quel ragazzino è un cowboy, si ha trovato una pistola a sei colpi nell'armadio di suo padre, in una scatola di cose divertenti”. Di crescita difficile, loro, ne sanno parlare. Il disagio di una generazione raccontato benissimo sotto sonorità neo psichedeliche.
Rabbit in Your Headlight - Unkle: “Sono un coniglio davanti ai tuoi fari spaventato dalla luce”, un uomo in un tunnel con il soffitto pesante e la terra fragile. Gli Unkle sanno portarti nel cuore del disagio, in universi profondi, sicuramente affascinanti.
Creep - Radiohead: “Sono una persona sgradevole, sono strano, cosa diavolo sto facendo qui? Io non appartengo a questo posto”, un grido disperato destinato a rimanere inascoltato e che invece è entrato nelle orecchie di tutti, raccontando la storia di chi si sente fuori dal mondo.
Man of Simple Plasures - Kasabian: “Vengo qui ancora una volta, provando con difficoltà a fingere. Non c’è futuro nelle vostre regole fatte dall’uomo. Sar governato dalla strada, devo liberarmi da questo carico pesante”. I Kasabian raccontano di occhi dislessici, quelli con cui guardano il mondo. Il loro sguardo alterato ci restituisce un universo di protesta arricchito da sonorità acid rock.
Little Dark Age - Mgmt: “Quando ti alzi dal letto non rimanere impigliato.
Terrorizzato da ogni pietra, sul palco: il mio piccolo Medioevo”. Il nostro Medioevo personale, quegli angoli scuri che sono dentro di noi, che ci fanno sentire sbagliati raccontati in un pezzo con versi quasi mono nota e synth sinistri. Da brividi, quelli belli.
Lithium - Nirvana: “Sono così brutto, ma va bene perchè lo sei anche tu. Rompiamo i nostri specchi”. Il disagio vive già nello sguardo di Kurt Cobain e i Nirvana trasportano in musica la parabola dei ragazzi che si sentono fuori posto e finiscono al centro del mondo. L’alterità domina sempre, anche in Lithium.
Melancolia - Nakhash: “Sui nostri corpi malfatti, sui nostri volti violenti. Come lo sai quante ossa ho nascosto dentro agli armadi?”. Il voler raccontare una storia, sapere che quelle belle possono essere raccontate per solo a metà. Melancolia parla proprio di quella bile nera, di quella fame di libertà, per chi, in fondo, non si è mai sentito nel posto giusto. Eppure gli piace.