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50 anni fa "Il Testamento di Tito": i Dieci Comandamenti di Fabrizio De André

Musica

Giuseppe Pastore

Nel novembre 1970 usciva "La buona novella", il concept-album sui Vangeli Apocrifi che conteneva all'interno uno dei massimi capolavori della storia della musica italiana

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La data è incerta. Molte fonti riportano il 1° novembre, altre si riferiscono al 19 novembre (a quanto pare, la data comparirebbe sulle prime matrici del disco messo in commercio), mentre il sito ufficiale dell'autore colloca la presentazione ufficiale al Circolo della Stampa di Milano addirittura al 12 gennaio 1971. Forse, ad ogni modo, non è così importante fissare esattamente l'atto di nascita di uno dei dischi più importanti della storia della musica italiana: La buona novella di Fabrizio De André.

L'idea iniziale de La buona novella, concept-album sulla vita di Gesù ispirata a fonti alternative a quelle del tradizionale Catechismo, non era farina del sacco di De André: era venuta al produttore Roberto Dané, che già nel 1969 aveva proposto all'etichetta milanese Belldisc di realizzare un disco sui Vangeli apocrifi con Duilio Del Prete, interprete di numerose canzoni di Jacques Brel (come attore lo ricorderete per esempio in Amici Miei nel ruolo del Necchi). La risposta di Antonio Casetta, proprietario della Belldisc, era stata naturale come l'uovo di Colombo: “Ma perché non lo facciamo fare a De André?”.

 

Del resto, l'idea di mettere in musica i Vangeli apocrifi – che non vuol dire “falsi” o “proibiti”, ma semplicemente “altri” rispetto a quelli ufficialmente riconosciuti dalla Chiesa – era comunque perfettamente nelle corde del De André anarchico e provocatore che aveva vissuto pienamente le contestazioni del Sessantotto e considerava i Vangeli una lettura perfettamente in linea con le sue idee politiche: “Sono il più bel libro d'amore che sia mai stato scritto”. Paradossalmente, il personaggio meno esposto e visibile è proprio quello di Gesù Cristo, che nei Vangeli apocrifi ha un ruolo meno centrale che in quelli tradizionali: si preferisce dare più spazio per i genitori Giuseppe e Maria, dipinti in maniera molto più umana e “terrena”, e non c'è traccia di Gesù per tutto il periodo dell'infanzia, della predicazione e dei miracoli. Dalla nascita si passa direttamente alla Passione e alla morte, evocata in quello che è il pezzo più importante di tutto l'album, nonché uno dei preferiti da De André insieme ad Amico fragile: un pezzo in cui Cristo non viene mai nominato direttamente (al massimo ci si riferisce a lui come “quel nazzareno”), ma “c'è sempre: è il filosofo anarchico, il profeta dell'amore che dalle quinte determina tutto”, come scrive Cesare G. Romana nel libro Smisurate preghiere. Il punto di vista geniale di De André e quello del “buon ladrone” Tito, crocifisso alla destra di Cristo (alla sua sinistra c'era invece Dimaco, il “ladrone cattivo” - e come commenterà De André, “chissà perché uno era buono e uno era cattivo...”).

 

Arrangiato dal maestro Gian Piero Reverberi, il disco fu registrato negli studi milanesi della Ricordi con l'accompagnamento musicale dei Quelli, un gruppo beat che due mesi prima aveva anche lavorato all'incisione di Emozioni di Lucio Battisti e l'anno successivo avrebbe definitivamente cambiato nome in Premiata Forneria Marconi. L'unico brano dell'album non composto interamente da De André era proprio Il Testamento di Tito: inizialmente “Faber” aveva composto una melodia di cui però non era molto soddisfatto, di fatto canticchiando il testo su Blowin' in the wind di Bob Dylan. Confidò la cosa all'amico e collega Michele Maisano (cantante genovese che negli anni Sessanta visse un periodo di lunga notorietà con il nome d'arte di Michele) e questi gli consigliò il compositore bolognese Corrado Castellari, con cui si mise al lavoro per una nuova musica. Castellari è citato nei ringraziamenti sulla copertina del disco. 

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Non avrai altro Dio all'infuori di me
Spesso mi ha fatto pensare
Genti diverse venute dall'est
Dicevan che in fondo era uguale

Credevano a un altro diverso da te
E non mi hanno fatto del male
Credevano a un altro diverso da te
E non mi hanno fatto del male

 

Il messaggio legato al primo comandamento è piuttosto chiaro: in quanti modi diversi possiamo chiamare e riferirci allo stesso Dio? L'inflessibilità della dottrina e del comandamento si scontra con il buonsenso delle persone semplici, di chi osserva che “in fondo è uguale”.

 

Non nominare il nome di Dio
Non nominarlo invano
Con un coltello piantato nel fianco
Gridai la mia pena e il suo nome

Ma forse era stanco, forse troppo occupato
E non ascoltò il mio dolore
Ma forse era stanco, forse troppo lontano
Davvero lo nominai invano

 

De André ribalta il concetto del secondo comandamento: il problema che affligge l'uomo non è nominare Dio per futili motivi, ma invocarlo senza essere ascoltati, fino a sospettare che sia inutile o addirittura disinteressato ai nostri problemi. Un interrogativo di stretta attualità, che ci poniamo in silenzio ogni volta che ci troviamo al cospetto di una calamità naturale. O di una pandemia.

 

Onora il padre, onora la madre
E onora anche il loro bastone
Bacia la mano che ruppe il tuo naso
Perché le chiedevi un boccone

Quando a mio padre si fermò il cuore
Non ho provato dolore
Quando a mio padre si fermò il cuore
Non ho provato dolore

 

Secondo il pensiero di De André, Onora il padre e la madre è uno dei comandamenti più “astratti” e discutibili, perché non tiene conto delle realtà e delle complessità di molte famiglie in cui si consumano ingiustizie o violenze domestiche. Gli ultimi versi sono terribili - “Quando a mio padre si fermò il cuore non ho provato dolore” - ma la povertà, il disagio e l'emarginazione hanno molte facce, spesso sgradevoli e socialmente inaccettabili.

 

Ricorda di santificare le feste
Facile per noi ladroni
Entrare nei templi che rigurgitan salmi
Di schiavi e dei loro padroni

Senza finire legati agli altari
Sgozzati come animali
Senza finire legati agli altari
Sgozzati come animali

 

De André inverte il terzo e il quarto comandamento e qui sottolinea l'ipocrisia formale della celebrazione della festa comandata, spesso riservata esclusivamente a borghesi e gente rispettabile e negata ai poveri o ai “ladroni” e ai criminali - che, com'è noto, per De André erano meritevoli dello stesso rispetto e dignità concesso a tutte le altre persone.

 

Il quinto dice non devi rubare
E forse io l'ho rispettato
Vuotando, in silenzio, le tasche già gonfie
Di quelli che avevan rubato

Ma io, senza legge, rubai in nome mio
Quegli altri nel nome di Dio
Ma io, senza legge, rubai in nome mio
Quegli altri nel nome di Dio

 

De André inverte “Non uccidere” e “Non rubare”, rispettivamente il quinto e il settimo comandamento. E all'inderogabilità della religione applica nuovamente il filtro del buonsenso: che differenza c'è tra un comune ladruncolo, il cui atto del rubare è giustamente condannato dalla legge, e un banchiere o un imprenditore che rubano “legalmente” protetti da un sistema eticamente scorretto? Come scriverà anche Francesco De Gregori in Chi ruba nei supermercati: “Tu da che parte stai? Stai dalla parte di chi ruba nei supermercati? O di chi li ha costruiti? Rubando?”.

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Non commettere atti che non siano puri
Cioè non disperdere il seme
Feconda una donna ogni volta che l'ami
Così sarai uomo di fede

Poi la voglia svanisce e il figlio rimane
E tanti ne uccide la fame
Io, forse, ho confuso il piacere e l'amore
Ma non ho creato dolore

 

Il sesso finalizzato al piacere è un concetto profondamente avversato dalla Chiesa: Tito protesta di non aver in fondo “creato dolore”, al contrario di chi intende il sesso come una cosa sempre e comunque volta alla procreazione, ignorando i tanti e a volte dolorosi risvolti pratici (sociali, economici, psicologici) di un figlio in più.

 

Il settimo dice non ammazzare
Se del cielo vuoi essere degno
Guardatela oggi, questa legge di Dio
Tre volte inchiodata nel legno

Guardate la fine di quel nazzareno
E un ladro non muore di meno
Guardate la fine di quel nazzareno
E un ladro non muore di meno

 

“Non uccidere” è l'unico comandamento che Tito non ammette di aver infranto: del resto togliere la vita a un uomo è il peccato più grave. De André sposta l'accento sull'abominio della pena di morte, condannata da Dio ma praticata ovunque, con una delle coppie di versi più forti ed emozionanti della sua intera produzione letteraria: “Guardatela oggi, questa legge di Dio/tre volte inchiodata nel legno”.

 

Non dire falsa testimonianza
E aiutali a uccidere un uomo
Lo sanno a memoria il diritto divino
E scordano sempre il perdono

Ho spergiurato su Dio e sul mio onore
E no, non ne provo dolore
Ho spergiurato su Dio e sul mio onore
E no, non ne provo dolore

 

Forse è per questo che De André ha spostato “Non uccidere” dalla quinta alla settima strofa, per legarla all'ottava: spesso la delazione è solo un mezzo che il Potere adopera per applicare la pena di morte e uccidere un altro uomo. “Lo sanno a memoria il diritto divino”, commenta ironicamente De André, “e scordano sempre il perdono”.

 

Non desiderare la roba degli altri
Non desiderarne la sposa
Ditelo a quelli, chiedetelo ai pochi
Che hanno una donna e qualcosa

Nei letti degli altri già caldi d'amore
Non ho provato dolore
L'invidia di ieri non è già finita
Stasera vi invidio la vita

 

De André unisce gli ultimi due comandamenti, entrambi legati all'invidia che, con una bellissima chiusa, Tito in croce ammette ora di provare per tutti i vivi. Anche in questo caso De André accusa le tavole della legge di farla un po' troppo semplice: si rivolgano semmai “ai pochi che hanno una donna e qualcosa”.

 

Ma adesso che viene la sera ed il buio
Mi toglie il dolore dagli occhi
E scivola il sole al di là delle dune
A violentare altre notti

Io nel vedere quest'uomo che muore
Madre, io provo dolore
Nella pietà che non cede al rancore
Madre, ho imparato l'amore

 

Se anche i Dieci Comandamenti sono così opinabili e non danno il minimo conforto a un uomo che sta morendo, dove rivolgersi per cercare amore e speranza? “Nella pietà che non cede al rancore”, ovvero nella continua ricerca del perdono e della comprensione altrui, nel provare non repulsione ma compassione per ogni tipo di sofferenza: è lì che Tito prova sollievo, in una specie di “undicesimo” comandamento di cui troviamo anche traccia nel Nuovo Testamento: “che vi amiate gli uni con gli altri” (Giovanni 13,34-35). La nostra chiosa finale è tanto banale quanto inevitabile: la conoscenza e l'analisi di un testo come Il testamento di Tito dovrebbero essere rese obbligatorie in tutte le scuole d'Italia.

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