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Cosa resta del Sundance Film Festival 2023

Cinema

di Federico Buffa e Mauro Bevacqua

Tra documentari candidati all'Oscar e grandi donne afroamericane, un viaggio alla scoperta dei titoli più significativi e originali presentati al Sundance quest'anno

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A pochi giorni dal via dell'edizione 2023 del Sundance Film Festival - la prima di nuovo in presenza, dopo due anni di festival vissuto da remoto per via della pandemia - l'annuncio dell'Academy con la cinquina di titoli finalisti per l'Oscar a miglior documentario ha confermato (non che ce ne fosse bisogno...) un assunto ormai evidente: al festival di Park City fondato da Robert Redford si va, prima di tutto, per l'incredibile selezione di documentari che ogni anno va in vetrina nello Utah. Quattro nomination su cinque arrivano infatti dal Sundance (unica eccezione il bellissimo "All the beauty and the bloodshed", vincente a Venezia 2022, firmato da Laura Pointras, regista che aveva già lasciato le sue orme sulla neve di Park City ancora nel 2010 con "The Oath", dodici anni prima del Leone d'Oro). Erano stati quattro (su cinque) anche nel 2021, tre nel 2020 e tre anche lo scorso anno. E in questo 2023 l'offerta non ha certo sfigurato, anzi - per cui i primi spunti partono proprio da qui.

Grandi donne afroamericane

È ormai una tradizione, al Sundance: in quasi ogni edizione un documentario punta i riflettori su un grande personaggio femminile afroamericano. Nina Simone (2015) e Toni Morrison (2019) sono due splendidi esempi del recente passato, ma è al documentario su Maya Angelou (passato da Park City nel 2016) che viene più naturale accostare uno dei titoli di quest'anno. "Going to Mars: the Nikki Giovanni Project" ha meritatamente vinto il premio della giuria nella sezione US Documentary, facendo scoprire la personalità e il talento di questa poetessa, scrittrice e attivista quasi 90enne nata nel Tennessee segregato nel 1943. L'opera di Nikki Giovanni - che per passo poetico ed emotivo ricorda proprio quella di Angelou - è tanto radicale quanto ironica, sa essere tagliente ma anche dolce, e la sua storia fa riflettere (tanto) ma anche divertire, grazie a uno spirito per nulla domato dall'età. In un'altra sezione, e in un altro ambito, stupendo anche il ritratto di Bethann Hardison, la protagonista di "Invisible beauty" (sezione Premieres). Invisibile è stata infatti per anni la bellezza delle modelle di colore, tenute ai margini - se non escluse - dal mondo della moda, nonostante proprio Hardison (esattamente 50 anni fa, nel 1973) avesse lei per prima calcato le passarelle del fashion show più audace di sempre, passato alla storia come "la battaglia di Versailles". Prima modella, ma poi agente e quindi attivista, Hardison ha scoperto e/o valorizzato nomi come quello di Iman e Naomi Campbell (ma anche una giovanissima Whitney Houston) senza dimenticare la firma per la sua agenzia di Tyson Beckford, il modello di colore più famoso di sempre (per anni simbolo di Ralph Lauren). Una vita e una carriera che meritano l'attenzione del grande pubblico e che toccano - non potrebbe essere altrimenti - anche l'Italia, quando nel 2008 Franca Sozzani vuole proprio Hardison come spalla per la creazione del numero "All-black" di Vogue Italia, che stabilirà vendite record e finirà per dover essere ristampato, evenienza mai successa prima nalla lunga storia di Condé Nast. 

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Going to Mars: the Nikki Giovanni Project - Courtsey of Sundance Institute
Invisible beauty - Courtsey of Sundance Institute

La decolonizzazione al cinema

La storia è anche storia di colonizzazioni, di sfruttamento territoriale e culturale, di diritti prima violati e poi negati. Lo sanno bene, come Paese, gli Stati Uniti d'America, che per anni - soprattutto al cinema - hanno alimentato il mito della frontiera (e del cowboy) ai danni dei nativi americani. Che oggi iniziano a far sentire la loro voce, e a narrare le proprie storie: come fanno Rebecca Landsberry-Baker, cittadina della tribù Muscogee e direttrice esecutiva della Native American Journalists Association nonché regista di "Bad press" (US Documentary) oppure Razelle Benally, filmmaker con sangue Oglala e Lakota, autrice di "Murder in Big Horn" (Premieres). La prima si concentra sulla libertà di stampa nelle riserve indiane, un diritto tutelato solo in 5 delle 574 tribù ufficialmente riconosciute dagli Stati Uniti; la seconda punta i riflettori su quell'epidemia silenziosa (perché spesso messa a tacere) conosciuta solo con una sigla, MMIW, che sta per Missing and Murdered Indigenous Women (donne indigene scomparse e uccise). I danni e le conseguenze delle colonizzazioni mondiali si estendono però ben al di fuori del continente americano, e al Sundance 2023 raggiungono tanto i confini africani quanto quelli delle regioni artiche e subartiche. Il sorprendente "Milisuthando" (World Cinema Documentary) riscopre infatti la storia del Transkei, sorta di colonia interna (bantustan) al territorio sudafricano ed espressione delle politiche di apartheid dell'epoca, autogovernatosi per anni in maniera quasi indipendente. Lo sguardo, intimo e soggettivo, è quello della regista Milisuthando Bongela, che nel Transkei ci è cresciuta, così come dalla prospettiva unica e singolare di Aaju Peter, avvocato e attivista Inuit, nasce "Twice colonized" (World Cinema Documentary): le sue battaglie personali sono infatti lo specchio di quelle del suo popolo contro Canada e Danimarca, potenze colonizzatrici che ancora oggi esercitano la loro forte influenza sulle terre e sulle vite della popolazione indigena dell'area artica. 

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Bad press - Courtsey of Sundance Institute
Milisuthando - Courtsey of Sundance Institute | photo by Rob Pollock
Twice colonized - Courtsey of Sundance Institute | photo by Angele Gzowski Photography

Teheran, USA

Evidentemente i "movie-goers" di Park City hanno stabilito una singolare vicinanza alle storie Made in Iran, presentate tanto nella forma della moderna commedia che in quella più classica drammatica. Entrambi i premi del pubblico, infatti, hanno consacrato due pellicole diversissime tra loro ma accomunate dallo stesso background culturale e geografico. "The Persian version" (US Dramatic) ricorda se si vuole un po' quel "Sognando Beckham" diventato grande successo di pubblico e botteghino ormai oltre 20 anni fa, sostituendo però l'Iran all'India e approfittando di alcune trovate davvero geniali e divertenti firmate da Maryam Keshavarz, che del film è regista ma anche sceneggiatrice (e per questo ruolo anche premiata, a fine festival). Di tutt'altro tono invece "Shayda" (premio del pubblico nella sezione World Cinema Dramatic), dramma di gelosia e violenza domestica ambientato tra Teheran e l'Australia, proprio i due luoghi di formazione della regista Noora Niasari, qui al debutto. Meritevolissimo di citazione anche "Joonam" (US Documentary), affresco di tre generazioni di donne a cavallo tra Iran e Stati Uniti: è espressione del primo Paese Behjat, la nonna, così come è figlia del secondo Sierra (Urich), la nipote - e regista del documentario. In mezzo c'è Mitra, figlia di Behjat e madre di Sierra, personaggio centrale non solo anagraficamente, che vive gli anni della rivoluzione iraniana e sceglie per sé (e per la figlia) un destino lontano dalla madre patria, stabilendosi in Vermont

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The Persian version - Courtsey of Sundance Institute | photo by Andre Jaeger
Shayda - Courtsey of Sundance Institute | photo by Jane Zhang
Joonam - Courtsey of Sundance Institute

Dopo Navalny, "20 days in Mariupol"

L'anno scorso, a festival già iniziato, fece irruzione nella sezione US Documentary "Navalny", lavoro allora appena ultimato e oggi tra i finalisti per l'Oscar (la dinamica si è ripetuta quest'anno con "Beyond utopia", di cui parleremo in seguito). E il dramma del conflitto tra Ucraina e Russia non poteva restare lontano dai grandi schermi di Park City neppure quest'anno. Facile prevedere che "20 days in Mariupol" (premio del pubblico nella sezione World Cinema Documentary) possa ottenere tra un anno esatto la stessa  nomination che l'Academy ha riservato oggi a "Navalny", perché Mstyslav Chernov - corrispondente di guerra ucraino, filmmaker e uno degli ultimi tre giornalisti di Associated Press a lasciare il Paese invaso dai russi (gli altri sono Evgeniy Maloletka e Vasilisa Stepanenko) - ha firmato un pezzo di giornalismo davvero encomiabile (il suo reportage si può vedere qui: https://www.mstyslav.com/20-days-in-mariupol). Se l'assedio, le stragi, i bombardamenti agli ospedali e le fosse comuni di Mariupol sono storia recentissima, si deve tornare indietro all'estate del 2014 - quando il conflitto in Dombas era al suo apice - per rivivere la tragedia raccontata in "Iron butterfly" (World Cinema Documentary). È il 17 luglio, per l'esattezza, quando l'aereo della Malaysia Airlines partito da Amsterdam e diretto a Kuala Lumpur viene abbattutto dai militari russi mentre sorvola i cieli dell'Ucraina dell'est. Muoiono 298 passeggeri, e il processo internazionale ha emesso il suo verdetto finale solo nel novembre del 2022. 

20 days in Mariupol - Courtsey of Sundance Institute | AP Photo/Evgeniy Maloletka
Iron butterflies - Courtsey of Sundance Institute | photo by Andrii Kotlia

Best of the rest

Sei film da tenere d'occhio, cinque titoli che sembrano fatti apposta per continuare la tradizione di quelle pellicole "da Sundance" che negli anni hanno contribuito a costruire l'identità di questo festival che sa mantenersi in qualche modo alternativo. Con ogni probabilità non saranno dei blockbuster, ma vale la pena recuperarli se mai saranno visibili.

 

"Slow" (World Cinema Dramatic): il tema dell'asessualità (di lui) nel rapporto di coppia tra una ballerina di danza contemporanea e un interprete della lingua dei segni. Dolce e allo stesso tempo amaro, romantico e disilluso, tenero e violento, Elena e Dovydas sono due personaggi che restano dentro.

 

 

Slow - Courtsey of Sundance Institute

"Kim's Video" (Next): per anni è stata la videoteca di culto di una certa New York, quella dell'East Village, grazie a un catalogo (sconfinato) di 55.000 titoli. Poi però i tempi cambiano, e i VHS non li affitta più nessuno. Entra in scena Vittorio Sgarbi (sì, quel vittorio Sgarbi) che porta l'intera collezione a Salemi, Sicilia. Non finirà bene.

Kim's video - Courtsey of Sundance Institute

"A still small voice" (US Documentary): forse il documentario più intimo, profondo ed emotivamente coinvolgente di questo Sundance. Premiato meritatamente per la regia di Luke Lorentzen, la superba protagonista (Mati Esther Engel) oggi vive tra Berlino, Tel Aviv e Gerusalemme dove si occupa di arti performative, teologia e cura spirituale.

A still small voice - Courtsey of Sundance Institute

"Beyond utopia" (US Documentary): non è la prima volta che la Corea del Nord arriva sugli schermi di Park City (The Lovers and the despot, 2016). Ultima aggiunta quasi fuori tempo massimo all'offerta di documentari Made in USA, vince il premio del pubblico e porta sullo schermo immagini di un mondo solitamente chiuso e inaccessibile.

"A thousand and one" (US Dramatic): ha vinto il premio della giuria e se l'ambientazione non è necessariamente nuova (la NYC degli anni '90), la storia raccontata da A.V. Rockwell è potente e l'interpretazione di Teyana Taylor, un nome da annotare, è perfetta nei panni di una fragile quanto irriducibile giovane donna afroamericana 

A thousand and one - Courtsey of Sundance Institute | photo by Focus Feature

"Fremont" (Next): minimalista, fin dalla scelta del bianco & nero. Una storia raccontata in punta di piedi, ma non per questo meno forte. Come la protagonista, Donya, ventenne afgana trapiantata in California, che di giorno si inventa messaggi che inserisce nei "cookie fortune" ma che di notte proprio non riesce a dormire...

Fremont - Courtsey of Sundance Institute | Photo by Laura Valladao