3/19, la recensione del film di Silvio Soldini con Kasia Smutniak in prima tv su Sky
Kasia Smutniak diretta da Silvio Soldini in una pellicola che analizza il tema della responsabilità verso il prossimo. In prima tv su Sky Cinema Due Martedì 22 Marzo
3/19, l'ultimo film di Silvio Soldini interpretato da Kasia Smutniak arriva in prima tv su Sky CInema martedì 22 marz. Ecco la trama del film
La vita di Camilla, avvocatessa di successo e una figlia ormai grande, viene sconvolta in una notte di pioggia a Milano. Un incidente stradale, di cui forse è responsabile, la coinvolge in un’indagine che la porterà molto lontana dai luoghi e dai paesaggi che è abituata a frequentare. Al suo fianco in questa strada misteriosa e incerta, c’è Bruno, direttore dell’obitorio, con cui Camilla ‐ mentre cerca di ricostruire la vita di un estraneo ‐ scopre sé stessa.
Si dice che Silvio Soldini sia l’erede di Michelangelo Antonioni, il regista che in pieno boom economico scelse di raccontare i dolori della borghesia italiana, optando per uno stile scarno e afasico, la cosiddetta “poetica dell’incomunicabilità”. Ed è probabilmente vero, anche qui infatti Soldini sceglie un titolo criptico, enigmatico , 3/19, che rimanda alla schedatura dei defunti sconosciuti in attesa di sepoltura. Il terzo morto non identificato dall’inizio dell’anno.
Proprio come faceva il maestro ferrarese, Soldini racconta le pene e gli affanni che si celano dietro il fascino discreto della borghesia; in questo caso, il mondo dell’alta finanza e delle multinazionali, che raramente sono stati rappresentati in Italia con tanta acutezza e perizia. A questo innegabile retaggio culturale, Soldini somma però un’abilità impareggiabile nel descrivere la propria città natale, Milano, che dai tempi de L’aria serena dell’ovest in poi il regista ha saputo raccontare in modo al tempo stesso affettuoso e spietato. Qui è il teatro perfetto della vicenda che ospita, un luogo freddo e distante, quasi indifferente a chi la abita siano essi i pescecani dell’alta finanza o i dannati della terra che vi sopravvivono inseguendo l’odore dei soldi. La Milano d’oggi, insomma, quella dei grattacieli e delle corporation apolidi; inquadrata spesso dall’alto, dai tetti e dalle finestre di appartamenti elegantissimi. Fintanto che non interviene il caso a spostare la storia e la macchina da presa ai livelli più infimi e più veri.
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Kasia Smutniak è Camilla, una donna in carriera che per l’appunto vive e lavora a Milano, la capitale morale, la città degli affari e della finanza per antonomasia. Si definisce “un soldato”, lavora anche di domenica, dialoga in inglese via Skype con clienti che vivono all’altro capo del mondo e abita in una casa spettacolare, con una raffinatissima architettura “minimal-chic” che denuncia tutto il suo (altissimo) reddito. Per connotarla sin dalla prima sequenza gli sceneggiatori le mettono in bocca il famigerato slang tecno-anglo-affaristico, ultimamente tanto in voga nelle grandi società multinazionali. È tutto un florilegio di “spin-off”, “closing”, clausole di “indemnity”, “cross-reference”, e via straparlando. La sua biografia è paradigmatica: una vita immolata sull’altare del lavoro (da autentica workaholic), un matrimonio naufragato, una figlia ostile e un nuovo amante bello, vacuo e vagamente razzista. Ricca e infelice, insomma.
Dopo una cena di lavoro, irritata dal comportamento del collega, esce dall’auto e si mette a camminare sotto la pioggia, prima di essere investita da due ragazzi in motorino. Uno dei due morirà, dando così l’innesco alla trama. L’evento luttuoso di cui è involontaria protagonista, si infila nella sua vita insoddisfatta come un cuneo rovente in un panetto di burro. L’incontro con l’”altro”, un giovane ragazzo immigrato senza apparente identità, (verosimilmente un irregolare, come dice pudicamente il direttore dell’obitorio; insomma un immigrato clandestino, come direbbe la sciatta vulgata mediatica intrinsecamente razzista), si insinua come un fertile elemento perturbante in quella esistenza superficiale, rivoluzionandola.
Non è un caso che il giovane deceduto provenga da un’area geografica imprecisata, dapprima orientativamente localizzata tra Siria, Afghanistan e Iraq. Forse è iracheno, con tanto di cicatrici per via delle torture subite durante il tipico viaggio della speranza verso il nuovo Eldorado chiamato Occidente; si chiama Hamed Hassan, o almeno così risulta dall’unico documento trovatogli in tasca: la mensa dei poveri di Milano. Insomma un caso emblematico delle migrazioni economiche che hanno caratterizzato questo scorcio di secolo. Nei suoi oggetti personali Camilla si imbatte nella foto di una donna con l’hijab e in un biglietto vergato in arabo: è l’irruzione del grande rimorso nella cella dorata in cui l’avvocatessa si era fin lì autoreclusa; la metafora del Sud del mondo, di quei diseredati che Camilla ha da sempre escluso dal suo orizzonte, e che ora le sono venuti letteralmente a sbattere contro.
Quell’episodio la costringe a guardarsi allo specchio e a considerare la realtà malamente celata sotto le apparenze di una vita fatua, la obbliga a strappare il velo di maya dietro al quale si era sin qui trincerata.
Tutto comincia a precipitare: prova a occuparsi di sua figlia, dopo 20 anni di latitanza, e in cambio ottiene uno sganassone in pieno viso. Intraprende una relazione col direttore della morgue, interpretato dall’attore calabrese Francesco Colella, un uomo semplice e integerrimo, lontanissimo dai modelli azzimati e rampanti ai quali era sinora abituata. Insomma, ancora una volta, l’altro da sé da cui la donna è attratta nel suo percorso disperato di messa in crisi e ricostruzione della propria identità.
In un montante processo di metamorfosi, la manager viene progressivamente posseduta dal desiderio insopprimibile di assegnare a quel cadavere un nome. Un’indagine ossessiva sulle incerte tracce lasciate dal defunto, che è anche una discesa agli inferi giù per le scale delle classi sociali; sempre più in basso, dove Camilla non aveva mai pensato di spingersi.
Una missione apparentemente vana, dare una degna sepoltura a quel morto sconosciuto e alieno, diventa però per Camilla una leva fondamentale per capovolgere la propria vita e consentirsi una seconda chance, provando a donare anche a sé stessa una nuova identità.
Attraverso il racconto di una storia nata dallo scontro degli opposti, che descrive l’arco di trasformazione di un personaggio che cambia letteralmente prospettiva, Soldini realizza un film di rara intensità, che è al contempo politico ed esistenziale; e che ci esorta a guardare oltre i nostri solipsismi satolli, aldilà delle nostre soddisfatte vanità.