Pippo e quella sua voglia di essere “Fantastici”

L’avevo incontrato solo una volta, a maggio, esattamente dieci anni fa, per presentare insieme Ciao, il commosso e commovente libro di Walter Veltroni dedicato al padre, ormai andato, ma che in una sera apparentemente come tante Walter, l’io narrante, ritrova sul pianerottolo di casa sua, ancora desideroso di dire e di ascoltare, ancora vivo. Come sembra Pippo Baudo, oggi, alla camera ardente velocemente ma amorevolmente allestita al Teatro delle Vittorie. Vivo - nelle immagini che scorrono sugli schermi dove ha quaranta, cinquanta, sessanta, settant’anni - sempre diciassette. Quanti ne può avere chi non è stanco di essere a disposizione dello stupore che la vita riserva a chi ha il coraggio e l’incoscienza di ascoltare le sue mille voci. C’è chi è seduto da ore accanto alla bara, e prega. Chi non si consola, per un motivo o per un altro - aoh, ma i famosi ‘ndo stanno? Chiede a una guardia una signora con la telecamera del telefono già pronta in modalità selfie. So’ venuti tutti ieri mattina, risponde la guardia, vabbè, fa lei, e comunque entra, si siede, prega, o pensa, forse nemmeno pensa. “Pipo io sono di Argentina e tu sei stato il mio maestro dell’italiano”, “Pippo, sei il Re”, “Pippo, questa non ce la dovevi fare”, “Mi ai fatto tanta compania come neanche il mio filio”, leggo, su uno dei tanti quaderni che da ieri mattina alle otto, all’uscita della camera ardente, accolgono le firme, i pensieri e i non-pensieri di tutti, famosi e non-famosi, ché tanto fa lo stesso. Suggerisce Pippo, nella gigantografia a forma di abbraccio dietro la bara: magari, se vi incontravo al momento giusto e nel posto giusto, vi inventavo io e famosi diventavate. O voi, che famosi siete, magari, se non v’incontravo io, famosi non sareste diventati. Senza l’ombra di nessuna arroganza, lo suggerisce. A mo’ di battuta - riferendosi, dall’inconscio suo al nostro, a una nota che non c’è, eppure condiziona tutto, fra il la e il si bemolle, una nota misteriosa, a nominarla già si perde, ma se la intoni può cambiare il destino, tuo e di chi farai sentire meno solo con il tuo talento, gli farai “tanta compania”, anche solo salendo su un palco e prendendo in mano un microfono. “Andiamo a salutare un signore che sapeva riconoscere chi quella nota che non esiste la pigliava”, spiego a mia figlia, che ha sette anni. Ci ritroviamo a Roma perché tre giorni fa, in montagna, è scivolata su un ghiaione, la sua faccia deve avere la pazienza di ricomporsi, il mio cuore, e tutto quello che gli sta attorno, pure. “Era proprio lui che diceva alle persone: tu la pigli. E quelle, magari, se non glielo dicevano lui, nemmeno se ne sarebbero mai accorte.” Mia figlia, attraverso il nasino nero, mi guarda: “A te quando l’hai incontrato ti ha detto che la pigliavi, la nota?” Mi chiede. “No, parlavamo insieme di un romanzo scritto da un altro scrittore. Ma mi aveva colpito molto che, di quel romanzo, lui aveva sottolineato le parti che gli piacevano di più, aveva messo tantissime orecchiette. Capisci, amore? Anche se era stato in televisione un milione di volte, per una cosa che poteva essere facile, e per cui chi era in quella sala tanto già gli voleva bene solo a guardarlo, aveva studiato”. “Quindi in terza elementare era andato benissimo?”. Più dell’ansia che la fronte e il naso tornino la sua fronte e il suo naso, può il fantasma della terza. “Sì. Ma senza farlo apposta.” Di nuovo mi guarda, stavolta senza chiedere niente. “È questo che stiamo salutando oggi, mi sa.” Dico io - e in quel momento lo realizzo. “Stiamo salutando un mondo in cui, mettendocela tutta e senza però farlo apposta, si poteva essere davvero diversi, amore.” “Diversi in che senso?”. Si poteva fare la storia invece che tante stories, penso. “Fantastici. Si poteva essere fantastici.” Rispondo.

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Pippo e quella sua voglia di essere “Fantastici”

Chiara Gamberale