La recensione di Gloria Mundi, film dell'autore francese di Robert Guédiguian in concorso a Venezia 76.
Per scegliere il titolo del suo dodicesimo lungometraggio, il marsigliese Robert Guédiguian, irriducibile alfiere di un cinema orgogliosamente engagé, decide di prendere in prestito una celeberrima locuzione latina: “Sic transit gloria mundi”, che letteralmente vuol dire: “Così passa la gloria del mondo” e però significa grosso modo: “Come sono effimere le cose del mondo!”. Utilizzata di solito come epitaffio di persone che prima del trapasso erano stati meritevoli di stima, viene più in generale usata per sottolineare, icasticamente, il passaggio dai grandi successi ai rovinosi rovesci.
Nel caso in oggetto, il titolo ha un duplice senso: intanto rimanda al nome di battesimo di una bambina neonata, Gloria per l’appunto: il cui parto ci viene mostrato, nella scena di aperura del film, in presa diretta, senza lasciare nulla all’immaginazione. Gloria mundi ha poi un evidente significato allegorico, che è benissimo spiegato dalle parole del regista francese di origini armene: “Parafrasando Marx – dice Guédiguian – ovunque regni, il neocapitalismo ha schiacciato relazioni fraterne, amichevoli e solidali, e non ha lasciato altro legame tra le persone, se non il freddo interesse e il danaro, annegando tutti i nostri sogni nelle gelide acque del calcolo egoistico”.
Ecco, dunque, cos’è l’opera di Guédiguian: l’appassionato atto di denuncia di una condizione sociale che secondo il regista non può e non deve essere irreversibile, ritenendo egli che non c’è nulla di naturale nella implacabile e feroce società in cui viviamo; nulla di ineluttabile, niente che non possa essere combattuto e magari battuto, anche con le armi del cinema militante.
Certo, in tutta evidenza c’è qualcosa di demodé in questo modo di fare cinema, in una società che pare assuefatta alla conservazione immutabile dello status quo. E però, proprio in questo aspetto risiede, secondo noi, il senso ultimo del cinema del regista marsigliese: nel suo andare – citando Fabrizio De André – in direzione ostinata e contraria.
Per farlo, usa come al solito gli strumenti della commedia sociale, nella quale, accanto agli evidenti, ed evidentemente sbandierati, j’accuse, trovano spazio le emozioni e le risate. In un modo non troppo diverso da quanto fa oltremanica l’inglese Ken Loach.
In questo ennesimo capitolo della sua rigorosa e coerente filmografia, Guédiguian racconta le vicende di una famiglia marsigliese resa fragile e feroce dalla precarietà economica; nella quale riconosciamo un guidatore di autobus sotto ricatto, una commessa precaria, un autista di Uber aggredito dai tassisti, e una coppia di famelici e spregiudicati arrampicatori sociali che fanno danaro acquistando oggetti usati, a prezzi da strozzinaggio, da persone più disperate di loro.
Tutto ciò accade - come sempre nel cinema di Guédiguian - nel cuore dell’Europa, nella città di Marsiglia più di preciso, da sempre teatro delle vicende messe in scena nei suoi film e oggi, ormai, anch’essa priva di quel tessuto umano di mutuo soccorso che fino a qualche anno fa poteva fare ancora ben sperare. Ormai qui come altrove vige la regola aurea della società dei consumi, nella quale vale un solo imperativo, quello del “mors tua vita mea”.
Ecco, perciò, sgretolarsi davanti ai nostri occhi una famiglia che è allegoricamente specchio di una città e del mondo intero, nella quale in maniera un po’ paradossale l’unico membro non spregevole è il nonno appena uscito di prigione. Come se, il galeotto, escluso da anni, avesse perciò stesso conservato una sorta di immunità di contatto nei confronti di questo mondo contemporaneo, in cui pare che a regnare sia rimasta solo la feroce competizione e la legge del più forte.
Questo è Guédiguian, lo si sa. Prendere o lasciare: non esistono alternative.
Al suo fianco troviamo, come sempre, la moglie Ariane Ascaride, che interpreta un personaggio emblematico: è la dipendente di una società di pulizie che lavora presso le navi da crociera attraccate nel porto, la quale, quando scoppia uno sciopero di protesta contro le drammatiche condizioni di lavoro, decide di boicottarlo, facendo la crumira; ancora una volta per egoismo sociale e individuale. Per familismo amorale. All’insegna di quell’homo homini lupus, che pare essere diventato l’unico comandamento laico di questa società alla deriva: precaria, impoverita e cattiva.
Nel cast, i soliti amici di una vita da Jean-Pierre Darroussin a Gérard Meylan, compagni di viaggio e di battaglia di un cinema che non si è ancora stancato di stare in trincea.