L'adolescenza, il ricordo del padre, i retroscena dei concerti: la rockstar si confessa in un'autobiografia da poco pubblicata da Chiarelettere. “Avrei voluto fare il Dams. Ma mio padre mi disse: ‘Economia, sennò a lavorare’”. L'ESTRATTO E IL VIDEO
di Vasco Rossi
Quando facevo ragioneria avevo un professore di italiano bravissimo, un personaggio eccezionale, mi ha aperto il cervello.
Le sue lezioni erano straordinarie, ci faceva pensare. Mi ricordo che un giorno venne in classe e diede da fare un tema libero, senza titolo. Non sapevo cosa scrivere, non riuscivo a cominciare. Gli altri avevano già iniziato ma io non riuscivo, non mi veniva niente... allora ho cominciato a scrivere questo: se non mi date un titolo la mia fantasia non riesce a scrivere niente, mi sentivo con le spalle al muro, ho descritto proprio quella sensazione e alla fine l’ho intitolato tema libero sul tema libero. Aspettavo il momento della consegna, immaginavo il professore arrivare e dirmi che mi voleva bruciare vivo. Quando arrivò davvero, si alzò e disse: «Vorrei leggervi il tema che mi è piaciuto di più»; era il mio e mi ha dato tra il 9 e il 10. Una cosa incredibile, è stato quello che mi ha dato la fiducia di potermela cavare con l’onestà e la sincerità. Quando sei alla frutta, con le spalle al muro, se lo dici poi alla fine va bene. Un meccanismo che uso ancora quando scrivo le canzoni. [2004]
Avevo un unico manifesto nella mia cameretta di studente universitario. Era in bianco e nero, o forse color seppia. Rappresentava un ragazzo tra i venti e i trent’anni che, con una specie di bisaccia portata con indifferenza a tracolla, camminava con passo deciso. Era ripreso proprio a metà del passo, con entrambi i piedi a contatto col terreno. Dava l’idea di sapere dove voleva andare. Gli abiti non erano particolarmente vistosi. Sembravano adatti a ogni situazione o evenienza. Idonei in un circolo culturale come in mezzo a una sommossa popolare. Portava stivaletti con i calzoni infilati dentro, ma non erano anfibi, non avevano un carattere aggressivo. Erano corti. Color marrone chiaro. Forse col pelo. Comodi per camminare. La sua figura, a grandezza naturale, occupava quasi per intero il manifesto. Sullo sfondo dietro di lui uno squallido muro di mattoni. Veniva avanti verso l’obiettivo e sul manifesto c’era una scritta: «La rivoluzione siamo noi». [2010]
Erano gli inizi degli anni Ottanta, quando, contro la mentalità del lavoro garantito in banca o statale, di una vita sicura ma monotona, io volevo, sognavo, pretendevo (ero molto giovane...) una vita spericolata: piena di avventure, di rischi, di incognite e di sorprese. Insomma, una vita vissuta intensamente. Non volevo certo (e non avrei mai voluto) che tutto ciò venisse inteso come «drogarsi» o finire schiavi delle dipendenze. Questa è una delle fantasie più perverse che la stampa nazionale abbia potuto partorire. Non si trattava neppure di permissivismo ma di una fuga dalla realtà, necessaria in un periodo storico come quello (yuppies, paninari, arrivismo, corruzione, soldi facili e craxismo). Oggi canto una vita vissuta pienamente, senza scorciatoie o soluzioni semplici. Le scorciatoie non esistono e chi le propone, riempiendosi la bocca di facili slogan (come fanno per esempio i politici), è un pazzo o un criminale. «Guardala in faccia la realtà!»... e tenete gli occhi aperti.
Non ascoltate troppo la televisione, con i suoi discorsi buonisti e superficiali, le sue notizie raccontate ad arte per spaventare, preoccupare e in definitiva plagiare l’opinione pubblica. Leggete, leggete i classici, e imparate a farvi una vostra opinione indipendente. Guardatevi intorno nel vostro piccolo mondo fatto di affetti sinceri o comunque veri. Gli amici, il bar, la famiglia, quelli che vivono vicino a voi. Smettetela di preoccuparvi di quello che succede dall’altra parte del mondo o dell’universo solo perché l’avete visto al telegiornale.
[2010]
A diciotto anni ho fatto domanda per entrare nei paracadutisti. Pensavo che se fossi stato in grado di buttarmi da un aereo avrei dimostrato di avere il controllo di me stesso. Poi, però, mi sono iscritto all’università e ho cominciato a chiedere i rinvii del servizio militare. Prima ho fatto Economia e commercio, per far contento mio padre. Avrei voluto fare il Dams. «Economia, sennò a lavorare» mi disse lui. All’inizio studiavo come un pazzo. Se la tua famiglia era povera ed eri in pari con gli esami ti davano 500.000 lire all’anno. Si chiamava «presalario», io ci compravo la moto. Finché un giorno dissi a mio padre: «O vado a lavorare o mi fai fare quello che mi va».
Volevo diventare psicologo ma il corso di studi a Bologna non c’era, così mi iscrissi a Pedagogia. Quando arrivò sul serio la cartolina del servizio militare stava iniziando la mia avventura e non potevo perdermi il momento buono. Andai all’ospedale e dichiarai di essere farmacodipendente – all’epoca prendevo anfetamine – così mi feci esonerare. Pur di non perdere un anno ho preferito sputtanarmi. Come farmacodipendente venivi escluso da qualunque tipo di lavoro statale. Mio padre era preoccupatissimo, come tutti i genitori sognava il posto fisso. Io piuttosto avrei fatto il camionista. [2009]
Mio padre si chiamava Giovanni Carlo Rossi, faceva il camionista. Quando l’azienda di trasporti per la quale lavorava è fallita si è messo a fare il padroncino. Poi ha comprato la casa per sistemare mia madre e me. Poi si è messo a lavorare sulla casa. Ha messo a posto l’ultimo infisso, quello di camera mia, e se n’è andato. Avevo ventisei anni quando è morto. Mi ha insegnato l’onestà senza compromessi e la tolleranza assoluta verso chi non la pensa come te. Mi rispettava, ma credo che gli sia costato. Lavorava come un mulo, tornava a casa dopo aver guidato il camion tutta la notte e trovava suo figlio ancora a letto alle undici del mattino. Lui partiva alle quattro di notte per andare a lavorare, io rientravo a casa alle sette del mattino per dormire.
Facevo il fighetto. Non dev’essere stato facile accettare un figlio che non aveva ancora le idee chiare su cosa voleva fare da grande. Mi voleva un bene dell’anima. Tutto quello che volevo lui me lo dava. A diciassette anni e mezzo, ancora con la patente da prendere, mi aveva già comprato una Mini Minor gialla. Mi piaceva quella macchina e ce l’avevo già prima di poterla guidare. Per me significava finalmente poter andare in giro per i locali. Parcheggiavo davanti al bar, non bevevo perché non avevo soldi, stavo lì. Poco più tardi, all’università, frequentavo Pedagogia senza troppa convinzione, volevo fare il cantante ma non mi prendevo troppo sul serio, facevo il disc-jockey in una radio che avevo aperto indebitandomi fino alle orecchie. Chissà quante volte avrà voluto dirmi: «Dammi una mano, non vedi come sono messo?». Non l’ha mai fatto e mi dispiace che non abbia potuto vedere quello che ho combinato dopo che se n’è andato. Avevamo uno splendido rapporto, anche se poco dialogo. Eravamo troppo diversi. Parlavamo e discutevamo, ma nessuno dei due cambiava idea. Se gli dicevo qualcosa, gli entrava da un orecchio e gli usciva dall’altro. Eppure era convinto che me la sarei cavata. Io mi adattavo, perché mangiavo a casa sua, ma non mi ha mai fatto pesare nulla. Non ha mai alzato le mani su di me, mai uno schiaffo. Solo amore. Posso immaginare quanto abbia sofferto. Difficile accettare il fatto che lui non si possa gustare il mio successo. Sarebbe felice e orgoglioso. Ricordo quel giorno che tornò da una passeggiata e in dialetto disse a me e a mia madre: «Ho visto la villa della Gigliola Cinquetti. Bella, bellissima. E davanti al cancello, lui, suo padre, che salutava orgoglioso i passanti». [2005]
Mio padre era morto da soli quattro giorni. Avevo un concerto il sabato sera ma non volevo andarci. Mi sentivo perso. Una merda. Con che coraggio potevo mettermi a fare rock in quel momento? Lo dissi a mia madre e fu lei a rispondermi che non dovevo mollare: «Se questo è quello che davvero vuoi fare nella vita, devi farlo anche adesso. E lui sarebbe il primo a esserne felice». Così andai. Trovai il coraggio. E la forza di non piangere. Avevo detto a me stesso che, se avessi pianto, sarei diventato anch’io camionista come mio padre.
[2005]
Mi ricordo un bellissimo concerto a Trieste, che mi fece molto soffrire. Alla fine piansi a dirotto. Trieste è la città dove morì mio padre. Ebbe un infarto sul camion e io andai a prenderlo. Avevo ventisei anni e cominciavo a farlo sul serio questo mestiere. In quel concerto a Trieste volevo fare bella figura, lo dovevo a mio padre, lo dovevo alla città che si era mobilitata per me. Alla fine mi sembrò che niente fosse andato per il verso giusto e piansi.
Perché per lui avrei voluto fare meglio, perché era morto prima di poter gioire del mio successo. La sua scomparsa fu la molla che mi scatenò dentro questa rabbia che ancora non riesco a domare, questo carattere ribelle. E in definitiva questa voglia di arrivare, di diventare una rockstar. [2001]
La morte di mio padre fu l’elemento scatenante. Quello che non era riuscito a fare da vivo, gli riuscì morendo. Quando era ancora vivo, io giocavo a cantare Fegato spappolato e a fare il rocker. Dopo, mi resi conto che il gioco era finito. Eravamo a terra, senza una lira, in un appartamento di 70 metri quadri. Mia madre casalinga, io che non ero ancora niente. Non potevo più giocare. E mi venne fuori una rabbia, una convinzione, una forza, anche una cattiveria che non pensavo sinceramente di avere. Non mi ero mai sentito così determinato. Mio padre era del segno del Leone, è stato come se morendo mi avesse trasmesso la sua forza di carattere, come se una parte di lui avesse cominciato a vivere dentro di me. La sua assenza improvvisa è diventata un momento chiave della mia vita. L’ultimo suo insegnamento fu: «Sparisco, così ti svegli». E io mi sono svegliato. [2005]
© 2011 Chiarelettere editore srl
Tratto da Vasco Rossi, La versione di Vasco, Chiarelettere, pp.208, euro 14
Quando facevo ragioneria avevo un professore di italiano bravissimo, un personaggio eccezionale, mi ha aperto il cervello.
Le sue lezioni erano straordinarie, ci faceva pensare. Mi ricordo che un giorno venne in classe e diede da fare un tema libero, senza titolo. Non sapevo cosa scrivere, non riuscivo a cominciare. Gli altri avevano già iniziato ma io non riuscivo, non mi veniva niente... allora ho cominciato a scrivere questo: se non mi date un titolo la mia fantasia non riesce a scrivere niente, mi sentivo con le spalle al muro, ho descritto proprio quella sensazione e alla fine l’ho intitolato tema libero sul tema libero. Aspettavo il momento della consegna, immaginavo il professore arrivare e dirmi che mi voleva bruciare vivo. Quando arrivò davvero, si alzò e disse: «Vorrei leggervi il tema che mi è piaciuto di più»; era il mio e mi ha dato tra il 9 e il 10. Una cosa incredibile, è stato quello che mi ha dato la fiducia di potermela cavare con l’onestà e la sincerità. Quando sei alla frutta, con le spalle al muro, se lo dici poi alla fine va bene. Un meccanismo che uso ancora quando scrivo le canzoni. [2004]
Avevo un unico manifesto nella mia cameretta di studente universitario. Era in bianco e nero, o forse color seppia. Rappresentava un ragazzo tra i venti e i trent’anni che, con una specie di bisaccia portata con indifferenza a tracolla, camminava con passo deciso. Era ripreso proprio a metà del passo, con entrambi i piedi a contatto col terreno. Dava l’idea di sapere dove voleva andare. Gli abiti non erano particolarmente vistosi. Sembravano adatti a ogni situazione o evenienza. Idonei in un circolo culturale come in mezzo a una sommossa popolare. Portava stivaletti con i calzoni infilati dentro, ma non erano anfibi, non avevano un carattere aggressivo. Erano corti. Color marrone chiaro. Forse col pelo. Comodi per camminare. La sua figura, a grandezza naturale, occupava quasi per intero il manifesto. Sullo sfondo dietro di lui uno squallido muro di mattoni. Veniva avanti verso l’obiettivo e sul manifesto c’era una scritta: «La rivoluzione siamo noi». [2010]
Erano gli inizi degli anni Ottanta, quando, contro la mentalità del lavoro garantito in banca o statale, di una vita sicura ma monotona, io volevo, sognavo, pretendevo (ero molto giovane...) una vita spericolata: piena di avventure, di rischi, di incognite e di sorprese. Insomma, una vita vissuta intensamente. Non volevo certo (e non avrei mai voluto) che tutto ciò venisse inteso come «drogarsi» o finire schiavi delle dipendenze. Questa è una delle fantasie più perverse che la stampa nazionale abbia potuto partorire. Non si trattava neppure di permissivismo ma di una fuga dalla realtà, necessaria in un periodo storico come quello (yuppies, paninari, arrivismo, corruzione, soldi facili e craxismo). Oggi canto una vita vissuta pienamente, senza scorciatoie o soluzioni semplici. Le scorciatoie non esistono e chi le propone, riempiendosi la bocca di facili slogan (come fanno per esempio i politici), è un pazzo o un criminale. «Guardala in faccia la realtà!»... e tenete gli occhi aperti.
Non ascoltate troppo la televisione, con i suoi discorsi buonisti e superficiali, le sue notizie raccontate ad arte per spaventare, preoccupare e in definitiva plagiare l’opinione pubblica. Leggete, leggete i classici, e imparate a farvi una vostra opinione indipendente. Guardatevi intorno nel vostro piccolo mondo fatto di affetti sinceri o comunque veri. Gli amici, il bar, la famiglia, quelli che vivono vicino a voi. Smettetela di preoccuparvi di quello che succede dall’altra parte del mondo o dell’universo solo perché l’avete visto al telegiornale.
[2010]
A diciotto anni ho fatto domanda per entrare nei paracadutisti. Pensavo che se fossi stato in grado di buttarmi da un aereo avrei dimostrato di avere il controllo di me stesso. Poi, però, mi sono iscritto all’università e ho cominciato a chiedere i rinvii del servizio militare. Prima ho fatto Economia e commercio, per far contento mio padre. Avrei voluto fare il Dams. «Economia, sennò a lavorare» mi disse lui. All’inizio studiavo come un pazzo. Se la tua famiglia era povera ed eri in pari con gli esami ti davano 500.000 lire all’anno. Si chiamava «presalario», io ci compravo la moto. Finché un giorno dissi a mio padre: «O vado a lavorare o mi fai fare quello che mi va».
Volevo diventare psicologo ma il corso di studi a Bologna non c’era, così mi iscrissi a Pedagogia. Quando arrivò sul serio la cartolina del servizio militare stava iniziando la mia avventura e non potevo perdermi il momento buono. Andai all’ospedale e dichiarai di essere farmacodipendente – all’epoca prendevo anfetamine – così mi feci esonerare. Pur di non perdere un anno ho preferito sputtanarmi. Come farmacodipendente venivi escluso da qualunque tipo di lavoro statale. Mio padre era preoccupatissimo, come tutti i genitori sognava il posto fisso. Io piuttosto avrei fatto il camionista. [2009]
Mio padre si chiamava Giovanni Carlo Rossi, faceva il camionista. Quando l’azienda di trasporti per la quale lavorava è fallita si è messo a fare il padroncino. Poi ha comprato la casa per sistemare mia madre e me. Poi si è messo a lavorare sulla casa. Ha messo a posto l’ultimo infisso, quello di camera mia, e se n’è andato. Avevo ventisei anni quando è morto. Mi ha insegnato l’onestà senza compromessi e la tolleranza assoluta verso chi non la pensa come te. Mi rispettava, ma credo che gli sia costato. Lavorava come un mulo, tornava a casa dopo aver guidato il camion tutta la notte e trovava suo figlio ancora a letto alle undici del mattino. Lui partiva alle quattro di notte per andare a lavorare, io rientravo a casa alle sette del mattino per dormire.
Facevo il fighetto. Non dev’essere stato facile accettare un figlio che non aveva ancora le idee chiare su cosa voleva fare da grande. Mi voleva un bene dell’anima. Tutto quello che volevo lui me lo dava. A diciassette anni e mezzo, ancora con la patente da prendere, mi aveva già comprato una Mini Minor gialla. Mi piaceva quella macchina e ce l’avevo già prima di poterla guidare. Per me significava finalmente poter andare in giro per i locali. Parcheggiavo davanti al bar, non bevevo perché non avevo soldi, stavo lì. Poco più tardi, all’università, frequentavo Pedagogia senza troppa convinzione, volevo fare il cantante ma non mi prendevo troppo sul serio, facevo il disc-jockey in una radio che avevo aperto indebitandomi fino alle orecchie. Chissà quante volte avrà voluto dirmi: «Dammi una mano, non vedi come sono messo?». Non l’ha mai fatto e mi dispiace che non abbia potuto vedere quello che ho combinato dopo che se n’è andato. Avevamo uno splendido rapporto, anche se poco dialogo. Eravamo troppo diversi. Parlavamo e discutevamo, ma nessuno dei due cambiava idea. Se gli dicevo qualcosa, gli entrava da un orecchio e gli usciva dall’altro. Eppure era convinto che me la sarei cavata. Io mi adattavo, perché mangiavo a casa sua, ma non mi ha mai fatto pesare nulla. Non ha mai alzato le mani su di me, mai uno schiaffo. Solo amore. Posso immaginare quanto abbia sofferto. Difficile accettare il fatto che lui non si possa gustare il mio successo. Sarebbe felice e orgoglioso. Ricordo quel giorno che tornò da una passeggiata e in dialetto disse a me e a mia madre: «Ho visto la villa della Gigliola Cinquetti. Bella, bellissima. E davanti al cancello, lui, suo padre, che salutava orgoglioso i passanti». [2005]
Mio padre era morto da soli quattro giorni. Avevo un concerto il sabato sera ma non volevo andarci. Mi sentivo perso. Una merda. Con che coraggio potevo mettermi a fare rock in quel momento? Lo dissi a mia madre e fu lei a rispondermi che non dovevo mollare: «Se questo è quello che davvero vuoi fare nella vita, devi farlo anche adesso. E lui sarebbe il primo a esserne felice». Così andai. Trovai il coraggio. E la forza di non piangere. Avevo detto a me stesso che, se avessi pianto, sarei diventato anch’io camionista come mio padre.
[2005]
Mi ricordo un bellissimo concerto a Trieste, che mi fece molto soffrire. Alla fine piansi a dirotto. Trieste è la città dove morì mio padre. Ebbe un infarto sul camion e io andai a prenderlo. Avevo ventisei anni e cominciavo a farlo sul serio questo mestiere. In quel concerto a Trieste volevo fare bella figura, lo dovevo a mio padre, lo dovevo alla città che si era mobilitata per me. Alla fine mi sembrò che niente fosse andato per il verso giusto e piansi.
Perché per lui avrei voluto fare meglio, perché era morto prima di poter gioire del mio successo. La sua scomparsa fu la molla che mi scatenò dentro questa rabbia che ancora non riesco a domare, questo carattere ribelle. E in definitiva questa voglia di arrivare, di diventare una rockstar. [2001]
La morte di mio padre fu l’elemento scatenante. Quello che non era riuscito a fare da vivo, gli riuscì morendo. Quando era ancora vivo, io giocavo a cantare Fegato spappolato e a fare il rocker. Dopo, mi resi conto che il gioco era finito. Eravamo a terra, senza una lira, in un appartamento di 70 metri quadri. Mia madre casalinga, io che non ero ancora niente. Non potevo più giocare. E mi venne fuori una rabbia, una convinzione, una forza, anche una cattiveria che non pensavo sinceramente di avere. Non mi ero mai sentito così determinato. Mio padre era del segno del Leone, è stato come se morendo mi avesse trasmesso la sua forza di carattere, come se una parte di lui avesse cominciato a vivere dentro di me. La sua assenza improvvisa è diventata un momento chiave della mia vita. L’ultimo suo insegnamento fu: «Sparisco, così ti svegli». E io mi sono svegliato. [2005]
© 2011 Chiarelettere editore srl
Tratto da Vasco Rossi, La versione di Vasco, Chiarelettere, pp.208, euro 14